La prospettiva gandhiana come contesto unificante per la ‘sustainability science’ e l’educazione alla sostenibilità - Centro Studi Sereno Regis (2024)

Riassunto – La riflessione sulla ‘sustainability science’ e sulle implicazioni di questo nuovo modo di intendere la conoscenza scientifica – immersa nella realtà politica, sociale ed economica e chiamata ad affrontare problematiche ambientali attuali e globali – pone sfide interessanti all’educazione: non si tratta più di impartire le basi di una istruzione scientifica consolidata e indiscutibile, ma di accompagnare i giovani a sviluppare idee, atteggiamenti e azioni adeguati a vivere in modo sostenibile nel nostro pianeta.

Attraverso la ‘sustainability science’, grazie alla sua apertura verso numerose altre discipline – dall’economia, all’etica, al pensiero riflessivo e alla dimensione spirituale – si sta ricomponendo una visione olistica del mondo e una consapevolezza dell’intima relazione tra umanità e natura. In questa ricomposizione di diversi filoni di pensiero si incontrano idee che Gandhi e i suoi compagni – in particolare Vinoba e Kumarappa –già un secolo fa avevano elaborato, sperimentato e vissuto – integrando sapere scientifico, etica ed economia.

Nella moderna riformulazione di queste idee alcuni Autori fanno esplicitamente riferimento a Gandhi, altri non lo segnalano come fonte: forse perché non ne conoscono – o non ne riconoscono – il pensiero.

In questa rassegna ho individuato numerose idee che alimentano il prender forma della ‘sustainability science’ e della ‘sustainability education’, che mi sembra siano riconducibili al pensiero di Gandhi e di quanti, insieme a lui e dopo di lui, hanno sviluppato una visione del mondo basata sulla ricerca della verità, sulla coerenza tra mezzi e fini, sulla nonviolenza come scelta fondamentale per l’azione, e sul reverente riconoscimento della dimensione trascendente dell’essere umano.

Parole – chiave: Sostenibilità Scienza Gandhi Educazione

The gandhian perspective as a unifying context for sustainability scienceand education to sustainability.

Abstract

The concept of ‘sustainability science’ and the way it relates to scientific knowledge – as a knowledge enterprise shaped by social, economic and political relationships and required to be answerable to current, global environmental problems – poses new challenges for education. The aim of science teaching is no longer that of transmitting the products of a consolidated and indisputable scientific ‘truth’, but it is directed towards helping young people to develop ideas, attitudes and actions that are in tune with sustainable ways of living, that is with awareness of the biophysical and physiological boundaries of our Planet.

Sustainability science’ and the openness that it promotes towards other fields of knowledge – from economics to ethics, through to spiritual thought – is recovering the features of a holistic view of the world and a renovated consciousness of the intimate relationship between humanity and nature. As part of this process of reconnecting different forms of thought it is possible to encounter and acknowledge ideas that Gandhi and his fellows and followers (particularly Vinoba and Kumarappa) had already developed and implemented more than a century ago: integrating scientific knowledge, ethics and economics in their own everyday living and pursuits.

In the modern reframing of these ideas only a few authors explicitly recognize Gandhi’s views; others don’t, and that may be because they are not well acquainted with gandhian literature.

In this review I identified numerous ideas at the basis of sustainability science and education for sustainability which appear to be directly ascribable to the ideas of Gandhi and of those who – with him and after him – have developed a vision of the world rooted into the search for truth, the coherence between means and ends, the choice of nonviolence as the main rule for action and the respectful recognition of the transcendent dimension of human beings.

Key words: Sustainability Science Gandhi Education

SOMMARIO

Introduzione

I PARTE Oggi: rivoli di consapevolezza convergono…

Ricerche interdisciplinari e problemi di sostenibilità

Verso una nuova idea di scienza

Allora… quale educazione scientifica?

II PARTE 100 anni fa…un approccio a tutto campo

La prospettiva gandhiana

Aspetti epistemologici

Il pensiero gandhiano

Aspetti di metodo

Le strategie di indagine

Mezzi e fini

Il pensiero gandhiano

Aspetti sociali: il coinvolgimento della collettività e la democrazia partecipativa

Il pensiero gandhiano

Fatti e valori, il dominio della razionalità e l’ambito spirituale, la dimensione etica

Il pensiero gandhiano

Umiltà, reversibilità degli errori, nonviolenza

Il pensiero gandhiano

Teoria e prassi – scienza e tecnologia

Il pensiero gandhiano

Aspetti economici: dai limiti biofisici ai limiti della crescita economica, dalla frattura tra economica ed ecologia al binomio ‘ecologia-equità’

Il pensiero gandhiano

Relazioni con la natura

Il pensiero gandhiano

L’educazione

Il recupero delle conoscenze tradizionali indigene

L’educazione partecipativa e lo sviluppo di pensiero critico

Il coinvolgimento della mente, del cuore, della mano

Il pensiero gandhiano

Conclusioni

Riferimenti bibliografici

Introduzione

L’approccio riflessivo e la prospettiva trans-disciplinare e partecipativa che insieme a colleghi e amici di IRIS (Istituto di Ricerca Interdisciplinare sulla Sostenibilità) utilizzo nella ricerca e nella sperimentazione educativa sulla sostenibilità mi hanno portata ad approfondire la riflessione sulla scienza, alla luce dell’incontro / confronto tra epistemologie e metodologie che si realizza nella ricerca trans-disciplinare e dell’ enfasi che gli studi di sostenibilità pongono alle ricerche basate su problemi.

L’idea convenzionale di scienza viene profondamente messa in discussione, e da questa ‘decostruzione’ si aprono interessanti prospettive per ridefinirla e ‘contestualizzarla’: si svela così l’intreccio del nostro sapere scientifico con le visioni del mondo, i sistemi di valori, i processi decisionali, le scelte economiche che ne sono a fondamento e che ne sono a loro volta influenzati.

La conoscenza scientifica non coincide con il mondo naturale. E’ invece una interpretazione umana di quel mondo, un modo concepito dall’uomo per capire il mondo. C’è un numero infinito di modi di concettualizzare il mondo o parti di esso, perciò la scelta di un particolare modo di farlo riflette sempre interessi umani. Ne consegue che il risultato degli interessi di gruppi sociali sullo sviluppo scientifico influenza la conoscenza scientifica, quindi rende tale conoscenza selettivamente utile ai diversi gruppi coinvolti, sia materialmente sia ideologicamente1(Martin, 1979, p. 86).

Dopo essere stata per tanti anni orientata a pensare che la scienza sia un modo ‘privilegiato’ e ‘più affidabile’ di conoscere il mondo, di fronte alla complessità dei sistemi naturali e al moltiplicarsi dei problemi che la stessa scienza (o, meglio, la tecno-scienza) ha provocato, mi tranquillizza pensare che siano praticabili numerose vie, oltre a quella del sapere ‘scientifico’, per trovare spiegazione e dare senso a quanto accade, e a noi stessi.

Il punto principale, a proposito delle idee complementari, è che un modo di vedere le cose – sia esso quello scientifico, oppure quello religioso o artistico – non è sufficiente, e ci priva di molti modi per capire il nostro ambiente: ma ancor più, è molto pericoloso perché, se viene fornito un solo modo di avvicinarsi alle cose, esso è esposto all’abuso2(Weiskopf, citato da Kreisler, 1988, p. 1).

Inoltre la pratica della Ricerca-Azione messa in atto nei percorsi formativi da me proposti (con insegnanti in formazione e in servizio) mi ha condotta a esplorare e valorizzare il ruolo dei ‘partecipanti’ alla costruzione del sapere: grazie a queste esperienze ho potuto apprezzare quanto sia importante far emergere le esperienze e le competenze di una molteplicità di soggetti, e superare la dicotomia tra ‘esperto’ e ‘non esperto’ – che spesso nasconde una ben più grave separazione – tra chi detiene e chi non detiene conoscenza, ricchezza, potere…

Il potere indebolisce dividendo. E’ il dualismo che mantiene il potere3(Visvanathan, 1997, p. 221).

Proviamo allora a cambiare prospettiva… a immaginare una scienza non più basata unicamente sulla logica duale, che ha prodotto una conoscenza meccanicistica di un mondo considerato esterno a noi e fatto di pezzi separabili, misurabili e individualmente dominabili e manipolabili; immaginiamola invece come un modo (tra i tanti possibili) di entrare in relazione con la natura che ci ospita, per vivere in armonia con essa. Una diversa visione di scienza, e un diverso modo di produrre conoscenza, possono aiutarci a sviluppare un nuovo livello di consapevolezza, e a operare per superare la visione dualistica, non solo nei confronti del mondo naturale, ma anche in ambito sociale, quella che distingue e separa gli esperti dai non esperti, i ricchi dai poveri, che decide da chi subisce..

Una via complementare verso una soluzione potrebbe consistere in una rivoluzione della coscienza, grazie alla quale la ricchezza di per sé sarebbe intesa come una malattia. Sarebbe utopia immaginare che le due parti [i ricchi e i poveri] si mettessero insieme? Dopo tutto, questa era la visione di Gandhi, […]4(Ravetz, 2006 b, p. 283).

Infine, l’opportunità che ho avuto – da 30 anni a questa parte – di collaborare con una Associazione indiana di matrice gandhiana, l’ASSEFA5, mi ha permesso di avvicinarmi al pensiero di Gandhi e di essere testimone della realizzazione concreta delle sue idee nei villaggi rurali del Sud dell’India.

In questo lungo percorso, di letture, riflessioni e attività di sperimentazione didattica ho trovato interessanti analogie tra una ‘nuova’ visione della scienza – che è stata definita ‘scienza post-normale’, ‘sustainability science’ oppure ‘transdisciplinary science’ – e alcune idee che erano state espresse e messe in pratica da Gandhi e da alcuni suoi collaboratori. In questo articolo propongo alcuni esempi di tali analogie, sottolineando come nel pensiero gandhiano convergessero e si integrassero molte delle riflessioni che – nel secolo successivo – sono state elaborate per lo più all’interno di singoli ambiti di ricerca, e che solo adesso stanno intrecciandosi per dare forma a una visione d’ insieme coerente, che potrebbe offrire nuovi orientamenti sia alla ricerca (con le sue molteplici interconnessioni con la società) sia alla formazione scientifica (e non solo…) dei cittadini, con possibili ricadute sull’idea e sull’esercizio della democrazia.

I PARTE Oggi: rivoli di consapevolezza convergono…

Ricerche interdisciplinari e problemi di sostenibilità

Uno spazio comune di incontro, confronto e talvolta dialogo tra studiosi di discipline diverse è quello offerto dalle ricerche inter- e trans-disciplinari sulla sostenibilità. Si è sviluppata una riflessione molto ampia e articolata sulle opportunità, ma anche sugli ostacoli che si incontrano nella ricerca interdisciplinare: opportunità di integrazione di competenze, ma anche difficoltà di comprensione dei reciproci linguaggi, metodologie, epistemologie di riferimento (Novotny et al., 2001; Max-Neef, 2005; Miller et al., 2008; Wickson et al., 2006). Ad alcuni ricercatori le problematiche della sostenibilità sono parse tali da trasformare i presupposti della ricerca scientifica tradizionale, spostando l’enfasi dal problema teorico, ben definito entro un ambito disciplinare, a problemi pratici, che emergono in specifici contesti geografici e socio-culturali, e i quali richiedono risposte concrete, che si realizzano attraverso processi decisionali e azioni sul territorio (Clark et al, 2005; Clark, 2007; Folke et al, 2002; Funtowicz et al., 1998; Kates et al., 2001; Osorio et al., 2009).

Inoltre, la dimensione ‘globale’ del nostro tempo, che è la cornice geografica e storico-evolutiva entro la quale è necessario porsi per affrontare i problemi – anche quelli locali – è anche la cornice socio-culturale entro la quale si può sviluppare il dialogo tra persone e tra culture. Da qui derivano alcune considerazioni:

  1. le ricerche e le loro immediate ricadute applicative non sono più confinate all’interno di laboratori, ma si svolgono direttamente nell’ambiente, coinvolgendo società, economie e sistemi naturali:Ora che la scienza è uscita dai laboratori, i suoi effetti non possono più essere contenuti o predetti. Quindi ci troviamo ora a vivere in un’epoca di consapevolezza di ‘conseguenze non previste’ e ‘ignoranze ignorate’, e non possiamo continuare a fare scienza, e a fare affari, come eravamo abituati6(Ravetz, 2006 a, p. 4). Da qui l’idea che sia doveroso includere i ‘portatori di interesse’ (stakeholders) nei processi decisionali che riguardano l’impresa tecno-scientifica: aventi diritto in quanto direttamente coinvolti;

  2. nel dialogo che emerge dal confronto con gli stakeholders – se di dialogo vero si tratta – occorre che si prendano in considerazione e reciprocamente si ascoltino non solo conoscenze, ma anche visioni del mondo, cornici concettuali (Olausson, 2009), narrazioni diverse (per esempio Clandinin & Rosiek, 2007): si tratta di un modo nuovo e diverso di costruire conoscenza;

  3. il processo di globalizzazione ha messo in luce i limiti biofisici del nostro pianeta (Fisher et al., 2007; Rockstrom et al., 2009), e di conseguenza i limiti nella disponibilità di accesso e di uso delle risorse da parte delle comunità umane, con i problemi di equità (Gadgil & Guha, 1995; Ravetz, 2006; Sachs 2002; Sachs & Santarius, 2007) che ne conseguono: mai come oggi la scienza e gli scienziati sono chiamati ad assumere responsabilità sul piano etico, e la società civile a prendere decisioni che riguardano implicazioni e ricadute sociali della tecno-scienza sul pianeta globalizzato (Cini, 2006; Jasanoff, 2009; Lövbrandet al., 2009; Srinivasan et al., 2008).

Verso una nuova idea di scienza

Lo sviluppo delle ricerche sulla sostenibilità e la riflessione sulla natura trans-disciplinare di molte delle problematiche affrontate ha dunque favorito l’emergere di nuovi interrogativi sulla natura e sul ruolo della scienza: interrogativi che hanno alimentato una riflessione critica su cui si sono incontrati – su un terreno comune – non solo pensatori e filosofi (Panikkar, 2005; Funtowicz & Ravetz, 1993, Ravetz, 2006), ma antropologi (Berkes et al., 2000; Dudgeon & Berkes, 2003; Ingold, 2000), economisti (Burlando, 2001, 2004; Martinez Allier, 2007, 2009), sociologi (Jasanoff, 2007, 2009; Ostrom et al., 2009) ecologi (Holling, 1998), studiosi di scienze fisiche, ambientali e umane (Scholz et al., 2006), linguisti (Lakoff & Johnson, 1999; Dodman et al., 2008), psicologi (Stokols, 2006), giuristi (Tallacchini, 2005), ecc.

E’ interessante notare che, a partire da discipline diverse, sono numerosi gli studiosi che contribuiscono a delineare una nuova idea di scienza, significativamente simile nonostante la varietà dei punti di partenza.

Ci sono stati appelli per un tipo diverso di scienza. Mi sono appuntato i nomi: ‘scienza critica’, ‘scienza dei cittadini’, ‘ricerca di comunità’, ‘ricerca-azione’, ‘scienza aperta’ e ‘scienza trasparente’, come pure scienza ‘ambientale’, ‘ecologica’, ‘della sostenibilità’. Ciascuna a modo suo mette in discussione qualche aspetto del discorso dominante della scienza attuale. Del resto era proprio questo lo scopo che ci proponevamo, Silvio Funtowicz e io, quando proponemmo la ‘scienza post-normale’7(Ravetz, 2006 a, p. 8).

A questa scienza ‘diversa’ vengono attribuite caratteristiche di transitorietà, incompletezza e incertezza e – come conseguenza – il riconoscimento della possibilità di errore (Salio, 1989), da cui deriva l’orientamento a compiere solo azioni reversibili; l’umiltà come atteggiamento mentale (individuale e collettivo); l’apprezzamento e la valorizzazione di una pluralità di punti di vista (non solo tra diversi attori sociali, ma anche tra persone o gruppi di solito caratterizzati da una diversa posizione di potere: esperti / non esperti; genitori/ figli; insegnanti / studenti…).

Il dialogo tra persone e tra culture non riguarda solo i modi di conoscere il mondo, ma anche i modi di viverci: riguarda quindi gli orientamenti programmatici, i processi decisionali e le scelte operative delle collettività, che caratterizzano componenti cruciali del processo democratico di un gruppo o di una società.

Lo stesso carattere di transitorietà e incertezza, e il confrontarsi di una molteplicità di punti di vista, alimenta spontaneamente lo sviluppo della metacognizione: ci si interroga sui propri modi di pensare, e si confrontano con i modi di pensare degli altri (Bateson, 1972, 1984; Sterling, 2002, 2009): trova crescente spazio la dimensione riflessiva.

Tra la molteplicità dei punti di vista occupano un ruolo importante l’intuizione8 e la creatività9, che si esprimono in una varietà di situazioni e con una molteplicità di manifestazioni artistiche.

Prendere atto delle diverse forme di ignoranza che caratterizzano la nostra vita – oltre che alimentare un senso di umiltà e di prudenza – ci può aiutare a restituire alla ‘natura’ il suo carattere di mistero, al quale ci si può accostare con gli strumenti concettuali della scienza, ma anche con la ricerca spirituale e con l’introspezione (Barbiero et al., 2007).

L’approccio trans-disciplinare porta con sé numerose implicazioni e conseguenze:

  • mette in luce il pluralismo epistemologico delle diverse discipline scientifiche

  • consente di integrare lo sguardo analitico e quantitativo con modi di conoscere qualitativi e olistici

  • favorisce lo sviluppo e l’applicazione di modi di pensare ‘integrativi’, ‘ecologici’, ‘inclusivi’…

Una visione inclusiva ricompone la dicotomia tra soggetto e oggetto: per quanto riguarda la nostra posizione nei confronti della natura, questa visione favorisce l’idea di esserne parte, e di dipendere da essa sia nel nostro divenire di persone sia nel nostro vivere quotidiano.

Una visione inclusiva tende anche a riconciliare la sfera della conoscenza con la sfera dei valori, e a ricomporre la dimensione materiale con quella spirituale.

Una prospettiva ’ecologica’, attenta alle connessioni e alle interdipendenze, valorizza una forma di conoscenza contestualizzata, costruita attraverso l’interazione con sé, con gli altri e con l’ambiente. Essa si integra bene con i fondamenti filosofici, con le ricerche e con le pratiche educative della Ricerca – Azione, caratterizzata dai suoi aspetti partecipativi e dagli obiettivi di ‘empowerment’ e di emancipazione (Boog, 2003; Gray et al., 2009; Rearson & Goodwin, 1999) che derivano dalla valorizzazione dei soggetti e dal superamento delle gerarchie di potere.

Allora… quale educazione scientifica?

La riflessione critica sulla scienza – che ha investito tutti gli ambiti disciplinari della ricerca accademica – sollecita interrogativi e proposte innovative anche nella ricerca e nella sperimentazione didattica: sia nel settore più specifico della ‘science education’ sia in un ambito più generale di messa in discussione dei principi epistemologici (Korfiatis, 2005) e metodologici della prassi educativa (Barth et al., 2007; Lourdel et al., 2007).

L’idea di scienza ‘post-normale’, o scienza della sostenibilità, ha implicazioni molto significative per una molteplicità di aspetti che riguardano l’educazione scientifica:

  • dal punto di vista dei contenuti, si mette in discussione l’efficacia di un insegnamento organizzato per singole discipline, e ci si domanda se sia più opportuno proporre argomenti consolidati e astratti proposti dai libri di testo oppure se non si possa procedere prevalentemente attraverso l’analisi di problemi concreti e reali di interesse collettivo (Diduck, 1999; Læssöe et al., 2010);

  • sul fronte del ‘metodo’, il riconoscimento dei limiti di ogni singolo sguardo e l’accettazione di una molteplicità di contributi rende necessario includere a scuola diverse modalità di costruzione di conoscenza: accanto alla presentazione di nozioni, definizioni e dati certi e accanto all’approccio quantitativo devono trovare spazio illustrazioni di ricerche qualitative, ricostruzioni storiche, narrazioni di esperienze (Czarniawska-Joerges, 1995; Miller et al., 2008);

  • la relazione tra insegnante e studenti, che finora si è ispirata al modello ‘esperto – non-esperto’, potrebbe ora accogliere la sfida di trasformarsi in una ‘comunità di pari’, in cui tutti sono impegnati ad apprendere gli uni dagli altri, in un processo di ‘ricerca-azione’ che favorisce la meta-riflessione (su di sé, sui propri modi di pensare, sui modi di pensare degli altri) e l’integrazione di saperi tra gli studenti (Seiler & Gonsalves, 2010);

  • se la scienza perde il carattere di ‘conoscenza neutra e oggettiva’, e le si riconosce la dimensione storica, contestualizzata e carica di valori, allora diventa interessante e opportuno il dialogo tra diverse visioni del mondo, in particolare le conoscenze ecologiche tradizionali di molte culture non occidentali e le relazioni con la natura sviluppate da sistemi di pensiero spirituali e religiosi: dialogo che si può svolgere a livello collettivo – tra culture – e a livello individuale – tra studenti in una stessa classe (Jedege & Aikenhead, 1999; Roth & Lee, 2004; Snively & Corsiglia, 2001);

  • analogamente, se la scienza moderna non viene più presentata come l’unico, e universalmente accettato, modo legittimo di descrivere il mondo, diventa cruciale – durante un percorso formativo – porre la domanda su quale tipo di conoscenza può essere più utile a favorire modi di vita equi e sostenibili per l’umanità, e quali presupposti sociali, politici, educativi siano più adeguati a favorirne lo sviluppo (Martin, 1979).

Nello scenario della scienza della sostenibilità l’educazione scientifica trasforma non solo l’approccio epistemologico, le scelte di contenuti, le modalità di relazione tra insegnanti e studenti, ma si pone obiettivi diversi: non si tratta più di fornire ai giovani un sapere disciplinare consolidato e organizzato per discipline, su cui poi alcuni – se sceglieranno di proseguire gli studi scientifici – si specializzeranno; si tratta invece di sviluppare pensiero critico, consapevolezza dei limiti del sapere di ciascuno (e dei limiti della biosfera), capacità di ascolto e di integrazione dei punti di vista diversi dai propri, emancipazione ed ‘empowerment’ (Fraser et al., 2006; Räthzel & Uzzell, 2009) di tutti i giovani, in quanto cittadini con il diritto/dovere di contribuire alle scelte collettive attraverso forme di democrazia partecipativa, creatrice di conoscenza (Gray et al., 2009).

A obiettivi nuovi corrispondono criteri e modalità di valutazione nuovi (Aikenhead, 1997; Hodson, 2003). l’attenzione degli insegnanti non si concentra più sul ‘giudizio’ espresso da ciascuno di loro sui singoli studenti rispetto alla loro capacità di acquisire nozioni, ma diventa un processo collettivo e condiviso di verifica dello sviluppo delle potenzialità di ciascuno – diverse a seconda delle attitudini individuali (Santa-Barbara et al., 2005; Worburton, 2003).

II PARTE 100 anni fa…un approccio a tutto campo

La prospettiva gandhiana

Nei paragrafi precedenti ho riassunto brevemente quale sia l’ idea di scienza che si va elaborando all’interno della comunità scientifica estesa (delle scienze sperimentali, ma anche delle scienze economiche, sociali e pedagogiche) – a partire dalla riflessione inter- e trans-disciplinare e delle problematiche della sostenibilità – e l’idea di educazione che da questa consegue. Queste idee hanno alcuni interessanti punti in comune con le posizioni assunte da Gandhi e dai collaboratori che gli furono a fianco (in particolare Kumarappa e Vinoba Bhave) nell’elaborare un’idea di sviluppo che si contrappose con forza, fin dai primi anni del novecento, a quello che stava mettendo in atto il mondo occidentale. E’ nota la forte critica che Gandhi pronunciò nei confronti non solo della società occidentale10, ma anche della scienza e della tecnologia moderne, espressa fin dall’inizio del ‘900 nel testo Hind Swaraj (Gandhi, 1909). Meno note, e oggetto di analisi solo di recente (Diwan & Lutz, 1985; Visvanathan, 1997; Prasad, 2001; Anup San Ninan, 2009) sono le numerose argomentazioni con cui Gandhi, Kumarappa ed altri gandhiani sottolinearono le strette interconnessioni tra scienza, economia, relazioni sociali, educazione nella nascente società tecnologica, anticipando – con la loro visione olistica – molte delle considerazioni espresse nel corso del ‘900 da singoli pensatori, spesso isolati e ‘controcorrente’ (per es. Bateson, 1973; Illich, 1973, 1981; Schumacher, 1998.

Mi propongo nelle pagine che seguono di evidenziare alcuni di questi punti di convergenza, mettendo a confronto –su alcuni aspetti specifici – le idee ‘moderne’ con il pensiero gandhiano.

Aspetti epistemologici

Le riflessioni che seguono si articolano a partire da una critica più generale della scienza convenzionale, nella misura in cui essa viene proposta come strumento oggettivo e neutrale di indagine del mondo, elaborato da soggetti separati dagli oggetti di studio.

La definizione di ‘sustainability science’ (La scienza della sostenibilità è un campo definito dai problemi che affronta piuttosto che dalle discipline di cui fa uso11: Clark, 2007, p. 1737) sposta la genesi della ricerca (di conseguenza l’impostazione del protocollo sperimentale, la metodologia usata, la scelta delle variabili significative, l’individuazione degli obiettivi) dal problema teorico, isolato, disciplinare e decontestualizzato, ai problemi reali, che si manifestano nell’ambiente e coinvolgono tutte le sue componenti (umane e non umane).

Per quanto riguarda le sue condizioni epistemologiche fondamentali, la sostenibilità è un concetto ‘sfocato’ e complesso che richiede una continua indagine scientifica e sociale, la messa in atto di pensiero critico, osservazione, discorso e analisi che implica cambiamenti sia concettuali che pratici12(Laws et al., 2004, in Hansmann, 2009, p. 537).

Il carattere transdisciplinare delle ricerche sulla sostenibilità implica la presa d’atto che si tratta di una forma diversa di conoscenza.

Transdisciplinarietà: più che una nuova disciplina o una super-disciplina, si tratta di fatto di un modo diverso di vedere il mondo, più sistemico e olistico13 (Max-Neef, 2005, p. 15).

Dobbiamo tener presente che il compito di conseguire la sostenibilità riguarda in parte le tecniche, ma ancor più riguarda un cambiamento di consapevolezza. Cambiare il modo in cui comunemente si pensa alla scienza è parte integrale di quel processo14(Ravetz, 2006 b, p. 279).

La presa di coscienza della complessità dei sistemi, il riconoscimento dell’esistenza di molteplici forme di conoscenza e di razionalità e del problema di accertarne la qualità e di farle dialogare, porta come conseguenza l’accettazione della possibilità di ‘spiegazioni’, ‘interpretazioni’ e ‘narrazioni’ discordanti. Già Bateson si era espresso a favore di una molteplicità di spiegazioni, come chiarisce Manghi (1998): secondo lui ciò che Bateson abbandona non è “il rigore, a favore dell’immaginazione”, ma la “descrizione unica”, a favore di quelle combinazioni che danno informazioni di genere diverso.

Alcuni Autori sottolineano l’ impossibilità di una conoscenza completa da parte della scienza: I problemi reali del mondo reale sono infinitamente complessi, e per ogni specifico problema la scienza offre sono parte del quadro15(Jasanoff, 2007, p. 33).

Il pensiero gandhiano

Gandhi distingue una Verità Ultima, cui tutti aspirano, dalle molteplici verità – imperfette e fallibili – che cerchiamo nel vivere quotidiano.

Il concetto di satya, di verità, in Gandhi è fondamentale; la verità è da lui intesa in due modi, uno con la V maiuscola ed uno con la v minuscola. La verità con la v minuscola è per Gandhi quello che lo è per noi nella vita giornaliera, o per gli scienziati; […]Gandhi diceva che possiamo ad un certo momento ritenere di avere delle ottime ragioni per credere alla verità di certi giudizi piuttosto che ad altri, ma non abbiamo mai ragioni conclusive, non possiamo mai essere certi di essere noi nel vero e gli altri nel falso (Pontara, 1998, p. 14).

La regola d’oro della condotta, dunque, è la tolleranza reciproca, visto che non penseremo mai tutti allo stesso modo e possiamo vedere la Verità in forma frammentaria e da diversi punti di vista (Gandhi, 1926).

Secondo Anup Sam Ninan (2009) Gandhi accompagnò la sua critica alla scienza moderna con la prospettiva di una scienza diversa, meno élitaria e orientata al bene comune.

[…] Lo schema Gandhiano per la scienza deve ridefinire le premesse e gli obiettivi al fine di proporre la sua lettura alternativa, nel contesto della sua decisa critica alla scienza ‘moderna’, ‘occidentale’. Vengono introdotti nuovi significati e nuovi domini della conoscenza scientifica, e pratiche strettamente legate ai processi politici in cui i gandhiani erano impegnati, in particolare nella costruzione della nazione. In questo processo furono intraprese tre diverse attività. Primo, il processo ridefiniva come scientifici i sistemi di conoscenza non-occidentali, non-moderni: è il caso dei sistemi di conoscenza medica Ayurvedica e Unani. Poste come alternative, esse vennero esplorate, criticate e valutate in confronto con la medicina moderna.

Secondo, certe abilità e pratiche come le conoscenze artigianali nei villaggi e la filatura a mano furono incorporate nella scienza: ciò volle dire legittimare queste forme di conoscenza e abilità come alternative ‘scientifiche’ alle opzioni moderne prevalenti o emergenti. Terzo, tutti coloro che praticavano queste attività venivano considerati ‘scienziati’, ovvero la scuola offriva la scienza come possibilità per tutti16(Anup Sam Ninan, 2009, p. 190).

L’idea di Gandhi di estendere la cerchia di coloro che possiamo definire ‘scienziati’ anticipa dunque l’approccio della sustainability science, che prevede una partecipazione estesa dei cittadini alla costruzione di conoscenza.

Secondo Shiv Visvanathan (1997) Gandhi apprezzava la creatività come componente significativa della scienza. Ma tale creatività non doveva essere alimentata da una curiosità fine a se stessa, bensì dal desiderio di risolvere problemi reali della quotidianità, con il coinvolgimento della comunità: Egli sarebbe stato d’accordo sul fatto che il traguardo della scienza era la creatività. […] Ma al tempo stesso Gandhi avrebbe suggerito che il credo scientifico della curiosità astratta, fine a se stessa, non funzionava. La soluzione al rischio di una curiosità vuota non è la scienza astratta nella sua torre d’avorio. Occorre invece restituire la scienza alla comunità, là dove ciascuno interagisce con i problemi quotidiani, da quelli più concreti a quelli esoterici17(Visvanathan, 1997, p. 232).

Come si è visto nella prima parte dell’articolo, nella prospettiva della ‘sustainability science’ il ruolo della comunità nel risolvere scientificamente i problemi concreti è cruciale – così come era stato anticipato da Gandhi.

Aspetti di metodo

Due sono le prospettive con cui si propone qui una riflessione sul ‘metodo’: la prima riguarda le strategie di indagine: la raccolta dei dati, l’uso dei numeri, il coinvolgimento o meno di diversi punti di vista. L’altra riguarda la qualità della relazione tra il ‘soggetto’ che indaga e l’’oggetto’ indagato, che ha a che fare con gli aspetti etici, in particolare la relazione tramezzi e fini.

Le strategie di indagine

Come ricorda Sergio Manghi (1998) nella sua approfondita esplorazione del pensiero di Bateson, secondo questo Autore l’idea che la quantità determini la qualità, che la parte sia in grado di controllare il tutto, che la mente umana separata dalla natura possa darne spiegazioni semplificate, queste e altre idee errate escludono dall’universo della scienza tutto ciò che ha importanza vera e vitale per “l’estetica dell’essere vivi”.

La scienza analitica, quantitativa, che dà valore e riconosce solo ciò che può essere espresso in forma matematica, viene messa in discussione nella prospettiva della scienza della sostenibilità (Gallopin, 2004; Funtowicz et al., 1998), che sottolinea l’importanza dell’approccio qualitativo e sistemico che integra quello analitico, cogliendo elementi e relazioni che al primo sfuggono. Al linguaggio nominale e sinottico (Dodman et al, 2008) è opportuno che si affianchino il linguaggio verbale e iconico; le narrazioni in prima persona diventano elementi preziosi per comporre un quadro più articolato.

Le narrazioni sono essenziali per strutturare la nostra comprensione di come i sistemi complessi si dipanano nel tempo […]. Il ruolo delle narrazioni nei processi di pensiero e nelle azioni umane, incluso l’ambito delle scienze e della gestione per la sostenibilità eco-sociale, è stato solo di recente preso in considerazione dagli scienziati; è stato invece trattato in molti altri ambiti di indagine, dal diritto, all’antropologia, allo sviluppo di comunità18(Waltner-Toews & Kay, 2009, p. 38).

L’importanza dell’approccio qualitativo è ampiamente trattato da Reason & Goodwin (1999). In particolare viene data rilevanza all’intuizione per ‘mettere insieme gli elementi in un tutto coerente’: E’ la facoltà intuitiva che dà un senso ai diversi dati e li organizza in uno schema coerente di significato e intelligibilità; naturalmente anche l’intelletto analitico è coinvolto nel far emergere la logica dell’insight intuitivo. Ciò che non viene praticato nella scienza è la cura per lo sviluppo della facoltà intuitiva, cioè la capacità di riconoscere gli ‘interi’ coerenti che emergono da parti tra loro collegate. Tuttavia, è evidente che lo studio delle proprietà emergenti nella scienza della complessità richiede un uso elevato dell’intuizione. Questa qualità è necessaria per cogliere l’ordine sottile che caratterizza le proprietà olistiche dei sistemi complessi – ecosistemi, sistemi sociali, salute.19(Reason & Goodwin (1999, pagina non numerata).

Il ‘metodo scientifico’, che ancora oggi viene presentato – a scuola e all’università – come lo strumento per eccellenza per scoprire e quantificare il funzionamento dei sistemi naturali, in realtà è stato da tempo affiancato da altri approcci, basati non tanto sulla distinzione tra il soggetto che osserva in modo neutrale e l’oggetto passivo e decontestualizzato sul quale si posa lo sguardo, quanto sulla nozione di interazione, di dialogo. Interessante, in particolare, è l’approccio della ricerca interpretativa che,, grazie all’uso di metodi chiamati “racconto di storie” o “indagine narrativa”, non tenta di predefinire le variabili indipendenti e dipendenti, ma tiene conto del contesto e cerca di comprendere i fenomeni attraverso i significati che le persone assegnano loro […]. Nella ricerca narrativa è sempre presente una molteplicità di contesti che vanno al di là del controllo del ricercatore – contesti spaziali, culturali, sociali, istituzionali; contesti fatti di luoghi e contesti fatti di persone. In base a questa prospettiva la ricerca narrativa è una forma relazionale di indagine (Clandinin & Rosiek, 2007).

Alcuni Autori osservano che, mentre la conoscenza scientifica viene distinta convenzionalmente dalla conoscenza comune, che viene trasmessa attraverso la narrazione di storie, è forse arrivato il tempo di reintrodurre la conoscenza narrativa in una tradizione di ricerca che è stata finora dominata dall’approccio ‘logoscientifico’ (Czarniawska-Joerges, 1995).

La legittimazione della ricerca qualitativa e la valorizzazione della narrazione: due elementi di innovazione che si affiancano al ‘metodo scientifico’ tradizionale, arricchendo e trasformando la pratica della scienza. A questi si aggiunge un terzo elemento di novità: la moltiplicazione dei punti di vista. La scienza della sostenibilità è prodotta da una comunità estesa di pari, che si pongono domande nuove rispetto alla scienza tradizionale, e il cui compito è un apprendimento reciproco, che nasce dal rispettoso confronto tra “domini descrittivi non equivalenti e modelli non riducibili20 (Mayumi & Giampietro, 2006, p. 392). Il materiale scientifico introdotto nei dialoghi tra gli stakeholders non è presentato come una serie di fatti indiscutibili, ma come un insieme di ‘evidenze’ per loro natura incerte, di rilevanza discutibile, e soggette a una pluralità di interpretazioni. Il dialogo non è orientato a dimostrare una verità scientifica, ma a negoziare tra una varietà di interpretazioni.

Noi possiamo, senza scivolare nello scetticismo, apprezzare il fatto che ogni immagine della realtà, essendo costruita all’interno di un particolare sistema, simultaneamente rivela, distorce e occulta 21(Ravetz, 2006 b, p. 280).

Mezzi e fini

In una serie di articoli in cui esamina – da più punti di vista – le interconnessioni tra le conoscenze scientifiche a disposizione, le applicazioni tecniche alla pratica colturale, e le modalità di scelta e di gestione di tali tecniche, Kala Saravanamuthu (2005, 2006) fa espliciti e ripetuti riferimenti al pensiero di Gandhi. In particolare, in un paragrafo dedicato alle ‘implicazioni dell’incertezza e dell’ambiguità che circondano la sostenibilità’ l’Autrice (insieme al coautore Humphrey Howie) richiama il concetto di satyagraha22, e la inseparabilità tra mezzi e fini.

La metodologia di coinvolgimento prospettata da Gandhi, il satyagraha, è centrale nella formulazione di un modello di sviluppo alternativo perché asserisce che il pubblico acquisisce potere quando accetta di assumersi una responsabilità per gli altri (inclusa la natura). Il Satyagraha ha lo scopo di emancipare la società dalla logica circolare della crescita insostenibile, creando per gli stakeholders lo spazio adeguato a riformare le abitudini di consumo e i mezzi di produzione23(p. 8).

[…] In secondo luogo, lo schema di riferimento deve riflettere una crescente consapevolezza / conoscenza della interconnessione tra umanità e natura. […] lo schema di riferimento diventa un mezzo tramite il quale i membri di comunità interconnesse si danno conto reciprocamente delle proprie azioni, informando contemporaneamente altri stakeholders (quali gli operatori di mercato e i responsabili della regolamentazione da parte dello stato). In breve, si tratta di uno sistema di responsabilizzazione che guida, ed è a sua volta orientato da, una crescente conoscenza relativa agli ecosistemi, alla biodiversità, al cambiamento climatico, all’inquinamento delle acque, alla salinizzazione ecc. In tal modo, questo sistema è un veicolo per fornire rendiconti che enfatizzano i mezzi più che i fini, all’interno di un contesto culturale di sperimentazione di modi migliori di svolgere attività produttive […]. Dovrebbe ridurre la frattura prodotta dalla crescita economica tra mezzi e fini 24. (p. 8).

Il pensiero gandhiano

La critica al ‘metodo scientifico’ e il moltiplicarsi delle strategie e degli sguardi con cui esplorare il mondo naturale trovano riscontro – come già accennato – nella distinzione che Gandhi fa tra la verità (con la v minuscola) parziale, fallibile, transitoria, e la Verità, inaccessibile agli umani, che egli fa coincidere con Dio.

Sui metodi che la scienza usa per conoscere Gandhi fu durissimo critico, quando tali metodi avevano carattere di violenza esercitata su altri esseri: è nota la sua contrarietà all’uso di animali nella ricerca, in particolare alla vivisezione.

Questo rifiuto a esercitare metodi violenti in nome della ricerca scientifica rientra in una presa di posizione assai più generale, che caratterizza in modo originale il pensiero di Gandhi. Mezzi e fini – egli diceva – sono termini intercambiabili. Non ammetteva che si possa chiudere un occhio su certi mezzi, giustificandoli sulla base dell’assunzione che il fine fosse buono.

A questo proposito due frasi di Gandhi sono particolarmente celebri – e vengono spesso citate:

  • Il mezzo può essere paragonato a un seme, il fine a un albero; e tra mezzo e fine vi è esattamente lo stesso inviolabile nesso che c’è tra seme e albero;

  • Si dice: ”i mezzi in fin dei conti sono mezzi”. Io vorrei dire: “i mezzi in fin dei conti sono tutto. Quali i mezzi, tale il fine. Non vi è un muro di separazione tra mezzi e fine.

Secondo Gandhi, ahimsa (nonviolenza) e verità sono talmente intrecciate che è praticamente impossibile districarle e separarle. Sono come le due facce – egli dice – di un liscio disco metallico non coniato. Chi può dire quale sia il diritto e il rovescio? E tuttavia l’ahimsa è il mezzo, la verità è il fine. Come vedremo nelle pagine che seguono, il concetto di nonviolenza e la pratica della nonviolenza sono al cuore del messaggio di Gandhi. La scienza della sostenibilità – che pure ha fatto proprie e ha rielaborato in chiave moderna, molte idee di Gandhi – stenta ad affrontare le enormi contraddizioni insite nella moderna tecnoscienza, che in nome della conoscenza e per conseguire il benessere umano ha esercitato e continua a esercitare violenze terribili sugli abitanti del nostro pianeta.

Aspetti sociali: il coinvolgimento della collettività e la democrazia partecipativa

Gli studi sulla transdisciplinarietà sono concordi nel sottolineare che nel processo di formulazione delle domande di ricerca e nelle fasi di studio che ne seguono devono essere coinvolti numerosi soggetti: occorre il coinvolgimento di una molteplicità di ‘attori’ sia come portatori di conoscenze sul problema, sia come portatori di interessi sui processi ed esiti della ricerca.

[…] ciò che si propone non è solo l’integrazione di prodotti – in termini di conoscenza generata su un determinato oggetto di studio – ma è anche la partecipazione delle persone e dei processi coinvolti, in modo tale che si costituisca una comunità estesa di pari, e la conoscenza popolare possa intenzionalmente intervenire nel dominio della scienza attraverso la partecipazione di tutti gli attori coinvolti25(Osorio et al., 2009, p. 54).

Il lavoro transdisciplinare implica un livello di interazione maggiore, che richiede una struttura di riferimento di livello superiore che consenta di organizzare persone, conoscenze e soluzioni in modi nuovi, in nuovi discorsi, in forme nuove di cooperazione e di impegno orientato alla trasformazione26(McGregor, 2005, p. 3).

A sottolineare il radicale cambiamento di prospettiva che accompagna l’idea di transdisciplinarietà, Wickson et al. (2006, p. 1051) mettono in evidenza il coinvolgimento intenzionale degli stakeholders nella definizione dei problemi e nella scelta dei criteri, obiettivi e risorse utilizzati per analizzli e risolverli27 .

Tra i soggetti implicati nel processo sono compresi non solo singoli individui o gruppi di interesse appartenenti a una stessa cultura, ma sono preziosi i contributi espressi dai portatori di altre visioni del mondo: Amministrare e gestire in chiave di una resilienza socio-ecologica richiede una comprensione delle dinamiche degli ecosistemi: comprensione alimentata anche dalla conoscenza e dalla saggezza degli utilizzatori locali e dei portatori di interesse28(Folke et al., 2002, p. 14).

In particolare, Berkes et al. (2000) mettono in luce come le conoscenze ecologiche tradizionali (TEK: Traditional Ecological Knowledge) elaborate all’interno di visioni del mondo profondamente diverse da quella occidentale, risultino particolarmente efficaci nella gestione di sistemi complessi e lontani dall’equilibrio.

Anche la scienza post-normale propone l’allargamento dei soggetti aventi diritto a esprimere le proprie idee e punti di vista nei problemi scientifici, in quanto ‘stakeholders’. In realtà questa legittimazione ha implicazioni molto più vaste: non si tratta solo di sentire il parere dei cittadini, ma di rispettarli e valorizzarne le idee in quanto possibili creatrici di nuova conoscenza. Se si accetta l’idea che ogni forma di conoscenza scientifica è espressione di una visione del mondo, ed è articolata all’interno di un ‘frame’29, di una cornice concettuale che la caratterizza e la delimita, diventa evidente che la partecipazione di cittadini, di gruppi sociali, di rappresentanti di altre culture è in grado di arricchire le possibilità di indagine, di esplorare nuove strade, di porsi domande nuove: in altre parole, di costruire modi di conoscere il mondo diversi da quelli consolidati.

La transizione da una scienza prodotta da una élite di esperti a una scienza elaborata da una collettività di soggetti diversi implica la messa a punto di strategie nuove, che devono tener conto delle differenze metodologiche, linguistiche, epistemologiche con cui i soggetti si confrontano.

L’ideale della dimostrazione scientifica rigorosa è sostituito da quello di dibattito pubblico aperto. I cittadini diventano al tempo stesso critici e creatori nel processo di produzione di conoscenza, in quanto fanno parte di una comunità estesa di pari. Il loro contributo non deve essere trattato con condiscendenza, ed etichettato come conoscenza ‘locale’, ‘pratica’, ‘etica’, ‘spirituale’. Viene invece accettata una pluralità di legittime prospettive tra loro coordinate (ciascuna con le proprie scelte di valori e le proprie conici concettuali)30(Funtowicz, 2006, citato da Guimarães Pereira & Funtowicz, 2006, p. 35).

Si stanno moltiplicando le esperienze pratiche di processi partecipativi, impegnate a motivare il pubblico e a valorizzarne le potenzialità: talvolta quando le autorità non riescono a trovare una via di uscita, altre volte quando si rendono conto che senza il consenso popolare certi programmi politici non saranno realizzabili.

Tali esperienze si configurano come ‘giurie di cittadini’, ‘focus groups’, ‘conferenze per il consenso’ o in una varietà di altre forme, ciascuna con diversa struttura e livello di potere. Ma tutte hanno un elemento in comune: esse sottopongono ad esame la qualità di proposte di azione pubblica, inclusa una componente scientifica, sulla base della conoscenza scientifica che padroneggiano combinata con conoscenze diverse dei processi sociali, politici, ambientali (Guimarães Pereira & Funtowicz, 2006; Guimarães Pereira, 2009).

Il pensiero gandhiano

Come riferisce Shambu Prasad (2001, p. 3723) Gandhi pensava che il processo di popolarizzazione della scienza non fosse un trasferimento lineare di conoscenza dall’esperto alla gente comune, ma dovesse implicare uno sforzo collaborativo. Solo così anche la scienza avrebbe potuto trarre beneficio dal processo31.

Per Gandhi la tradizione non era una cieca raccolta di eventi passati, mauna forma di indagine, un’avventura scientifica, una scienza della comunità, non pianificata eppure vigorosa, costantemente messa alla prova e rivista alla luce della dura realtà della vita32(Bhikhu Parech, citato da Visvanathan, 1997, p. 225).

Anup Sam Ninan (2009) in un recente saggio in cui esamina le caratteristiche della tecnoscienza di Gandhi, sottolinea che uno dei punti di critica più radicale da parte della ‘scuola gandhiana’ nei confronti della scienza occidentale è il riconoscimento degli ‘esperti’ come soggetti privilegiati, unici produttori di conoscenza tecnica e scientifica. Nelle intenzioni di Gandhi e dei suoi collaboratori le organizzazioni di villaggio (come i Gandhi Seva Sangh, GSS) e le pratiche educative (secondo le prospettive del Nai Talim, o ‘Nuova Educazione’) avrebbero favorito il coinvolgimento diretto degli abitanti dei villaggi nell’affrontare questioni scientifiche e tecnologiche. Gandhi intendeva coinvolgere i ‘community workers’ dei GSS con un ruolo di coordinamento per promuovere la scienza nei villaggi, in quanto ‘artigiani esperti e ricercatori scientifici’33 (Ninan, 2009, p. 192).

Una rete di attivisti e accademici indiani (KICS: Knowledge in Civil Society, 2009) ha pubblicato di recente un ‘Manifesto’ sulla Scienza e sulla Tecnologia – Knowledge Swaraj – in cui si fa esplicito riferimento al testo pubblicato da Gandhi nel 1909: Hind Swaraj. Questi Autori ritengono inseparabili le tre dimensioni – chiave della giustizia, della sostenibilità e della pluralità. Il riconoscimento della pluralità – affermano – inizia con il rendersi conto che vi è una molteplicità di sistemi di conoscenza e diversi tipi di esperti, in contrapposizione all’idea convenzionale che distingue esperti e non esperti. In questo documento vengono fatti ripetuti riferimenti al pensiero gandhiano, denunciando la violenza con cui la scienza occidentale si è imposta, sia marginalizzando o danneggiando popolazioni in conseguenza di decisioni tecnologiche imposte dall’alto, senza consultare i diretti interessati, sia soffocando modi di pensare e di vivere diversi da quelli dominanti, o perché diversi, o perché dissenzienti. Gli Autori introducono il concetto di ‘giustizia cognitiva’, che riconosce il diritto e apprezza il valore di una diversità di forme di conoscenza. La molteplicità di culture, di forme di conoscenza, di visioni del mondo sono a loro parere una via essenziale per ridurre la vulnerabilità delle nostre scelte tecnologiche, e per costruire società più sostenibili. Uno studioso che fa parte degli estensori di ‘Knowledge swaraj’ – Amit Basole (2006, 2008) si rifà al concetto di lokavidya, un termine che indica l’insieme di conoscenze posseduto da una società: non solo (e non tanto) quelle astratte, organizzate e riconosciute, quanto quelle implicitamente possedute dalla comunità, utilizzate nelle attività pratiche, spesso marginalizzate; conoscenze dinamiche, che consentono di adattarsi alle circostanze nuove che la vita di continuo presenta. La prospettiva del lokavidya riconosce che la vita della quotidianità è un centro di produzione di conoscenza e non semplicemente la messa in atto di conoscenze generate altrove34(Basole, 2008, p. 10).

Fatti e valori, il dominio della razionalità e l’ambito spirituale, la dimensione etica

Lo studio delle dimensioni sociali della conoscenza si è intensificato negli ultimi decenni. Le controversie sociali – in particolare sulle tecnologie sviluppate dalle scienze – insieme agli sviluppi del naturalismo filosofico e dell’epistemologia sociale hanno dato luogo a una vastissima letteratura (Longino, 2006), che offre spunti sia per analisi strettamente filosofiche, sia per vere e proprie sfide alle idee convenzionali sulla conoscenza scientifica.

Uno dei cardini della moderna tecno-scienza è la rigida separazione tra la dimensione del mondo materiale (che può essere studiato dalla scienza) e la dimensione spirituale e/o religiosa. Ma la scienza della sostenibilità mette in discussione la possibilità di separare così nettamente il dominio dei fatti dal dominio dei valori.

Non solo: l’affermazione che la scienza occidentale – con la sua posizione di analisi oggettiva e neutrale dei ‘fatti’ – di per sé non contiene, nei suoi presupposti e nei suoi modi di ragionare, alcuna visione del mondo (Gauch, 2009) viene da più parti contestata. Per esempio Jasanoff (1996) sostiene che la conoscenza scientifica è contestuale, e non è indipendente dalla cultura e dai valori; essa è co-prodotta dagli scienziati e dalla società nella quale sono immersi. Anche Funtowicz e Ravetz (1993) sottolineano che ogni passo nel processo scientifico implica una scelta di valori: essi affermano che non esiste una prospettiva unica, privilegiata, sul sistema. I criteri per la scelta delle variabili, i limiti stabiliti dai modelli, la formulazione di costrutti teorici sono tutti carichi di valori, e i valori sono quelli incorporati nel sistema sociale o istituzionale entro il quale la scienza viene prodotta.

Nelle culture non occidentali il ruolo dei valori non solo è ammesso, ma costituisce un elemento fondante della conoscenza: […] le visioni del mondo tradizionali spesso hanno anche una componente spirituale che può essere interpretata come una via per confrontarsi con l’incertezza. […] Valori culturali come il rispetto (per le persone come per la natura), la condivisione, la reciprocità e l’umiltà caratterizzano una varietà di sistemi di conoscenza e pratica tradizionali35(Berkes et al., 2000, p. 1259).

La messa in discussione dell’oggettività e neutralità della scienza non apre solo le porte ad accogliere contributi alla conoscenza che provengono da esperienze dirette e riflessioni spirituali: essa consente di rimettere in discussione le finalità della scienza, gli orientamenti della ricerca, il ruolo dell’etica. Piuttosto che affermare a gran voce di conseguire la verità, peraltro difficilmente conseguibile, la pratica scientifica dovrebbe ammettere incertezza e ignoranza, esercitare un giudizio etico e una riflessione epistemica, e assicurare per quanto è possibile che siano i bisogni della società a guidare i progressi delle scienze, anziché la scienza a presumere di saper condurre la società36 (Jasanoff, 2009, pagina non numerata).

Il pensiero gandhiano

Gandhi rifiuta l’idea che la scienza possa essere separata dalla morale. Anzi, la sua critica alla scienza moderna deriva proprio dalla sua insoddisfazione per il fatto che scienza e progresso hanno divorziato dalla moralità: una scienza, per essere tale, deve porsi come scopo prioritario quello di soddisfare la fame del corpo, della mente e dell’anima37 (Gandhi, 1995, p. 90). Come ricorda Anup Sam Ninan (2009), Gandhi sosteneva che ogni ricerca sarebbe stata inutile se non accompagnata da una ricerca interiore, in grado di connettere il cuore dello scienziato con quello di milioni di poveri. Se le scoperte che si fanno non hanno come scopo il benessere dei poveri, tutte le attività di ricerca non sono altro che attività diaboliche. Gandhi e i suoi collaboratori posero al primo posto delle loro preoccupazioni il rigore morale degli scienziati. La riformulazione degli obiettivi di ricerca era considerato un elemento cruciale nel funzionamento della scienza come istituzione sociale.

[Gandhi] si proponeva anche di ricostruire – nel suo metodo di ricerca – le relazioni tra fatti e valori, tra scienza e religione. Insistendo sul fatto che gli scienziati devono dare un senso a ciò che fanno, espresse chiaramente che non era interessato a soluzioni puramente tecniche a un problema. Il ruolo dello scienziato non si limita alla sfera dei fatti, ma riguarda la creazione di significato (valore). Per lui le due sfere non potevano essere separate 38 (Prasad, 2001, p. 3731).

Umiltà, reversibilità degli errori, nonviolenza

Il riconoscimento di una dimensione che ci trascende, che non possiamo conoscere né dominare, da un lato si esprime con forme di spiritualità e religiosità, dall’altro alimenta la consapevolezza dei limiti e favorisce lo sviluppo di atteggiamenti di umiltà e prudenza.

La scienza della sostenibilità orienta proprio verso questi atteggiamenti: attraverso la presa di coscienza della nostra inclusione nella biosfera, un sistema in continua evoluzione, essa ha favorito il riconoscimento – da parte di numerosi studiosi – della sostanziale ignoranza che caratterizza il pensiero umano, e della impossibilità di prevedere gli esiti dei processi naturali e degli interventi umani. Una verità fondamentale, quindi, è l’intrinseca inconoscibilità, così come l’impredicibilità, degli ecosistemi e delle società alle quali sono connessi 39(Holling, 1998 pagina non numerata).

Pur rimanendo ancora marginali rispetto alla scienza dominante, si moltiplicano le voci – anche all’interno della comunità scientifica – che mettono in guardia rispetto all’atteggiamento di arroganza e alla presunzione di ‘dominare’ il mondo: Il problema non è se gli ecosistemi sopravvivranno, ma piuttosto se continueranno a offrire all’umanità quei servizi che le consentono di sopravvivere in modo confortevole. Scompaginare gli ecosistemi globali è difficilmente compatibile con questo fine. La nostra superbia rende difficile accettare l’idea che forse non sappiamo qual è il livello di alterazione compatibile con la nostra sopravvivenza40(Santa Barbara et al., 2005, pagina non numerata).

Riconoscere che in molte situazioni non si riesce ad arrivare a conoscenze certe ha dato luogo a moltissimi contributi – teorici e normativi – che riguardano la sfera decisionale: come decidere in condizioni di incertezza, o di ignoranza? L’inizio ufficiale della riflessione in questo campo si fa coincidere con la Conferenza di Rio del 1992, quando per la prima volta si introdusse il concetto di ‘Principio precauzionale’41.

Dall’accettazione di una condizione di ignoranza consegue l’ammissione di poter sbagliare, sia nelle interpretazioni scientifiche sia nelle scelte tecnologiche che le accompagnano. Di qui una semplice ‘regola’ di metodo: poiché l’unica cosa certa è che possiamo sbagliare… dobbiamo premunirci rispetto ai nostri stessi errori, scegliendo soluzioni che siano il più facilmente possibile correggibili. […] La richiesta di correggibilità comporta sostanzialmente le seguenti condizioni: diagnosi precoce dell’errore, flessibilità del sistema (Salio, 1989, p. 132).

Un atteggiamento di umiltà, dunque, come orientamento: lo propone anche una sociologa della scienza, Sheila Jasanoff, che in un breve articolo pubblicato nel 2007 suggerisce l’adozione di ‘tecnologie dell’umiltà’. Prima di lei, già Bateson aveva citato l’umiltà come componente epistemologica: Primo, c’è l’umiltà; e non la propongo come principio morale, sgradito a un gran numero di persone, ma semplicemente come elemento di una filosofia scientifica (Bateson, 1968, pagine non numerate).

Il riconoscimento della propensione all’errore, e la riflessione sull’opportunità di scegliere, tra le azioni possibili, quelle più reversibili, viene introdotto solo di recente da Ravetz, in un documento in cui – dopo vent’anni dai primi scritti – egli cerca di attualizzare le caratteristiche della scienza Post-Normale alla luce delle più recenti riflessioni sulla sostenibilità. Ravetz fa qui esplicito riferimento al pensiero di Gandhi:

[…] in questo momento storico, il messaggio di Gandhi è stato (finora) meno annacquato di quello di altri. Proviamo a fare una lista delle caratteristiche di una scienza basata sul satyagraha, e focalizzandoci su noi stessi. Questa lista include la consapevolezza della nostra ignoranza e la nostra propensione all’errore; la disponibilità a imparare dagli altri – che siano studenti o cittadini; l’assunzione di responsabilità per le conseguenze non previste delle nostre scoperte o invenzioni; la consapevolezza della possibilità di produrre danni in nome del bene; la coscienza delle contraddizioni che affliggono chiunque debba affrontare le pressioni corruttrici del potere e della responsabilità 42 (Ravetz, 2006 a, p. 16).

Di recente uno studioso di scienze ambientali – David Orr – noto per il suo impegno nel rendere i Campus universitari più sostenibili, ha sottolineato l’urgenza di un cambiamento di mentalità:

L’idea trasformativa di nonviolenza non può più essere messa da parte come una bizzarria orientale, un’aberrazione storica, o il culmine dell’ingenuità. In fondo al tunnel in cui ci troviamo, si tratta piuttosto del nucleo di un più pratico realismo globale. Non vi è un futuro decente per l’umanità senza una trasformazione sia del nostro modo di interagire tra noi, sia di porci in relazione, collettivamente, con la Terra 43(Orr, 2008, p. 237).

E ancora: Alla base di una relazione più realistica sta il riconoscimento che la violenza – in qualunque forma – è una via sicura verso la rovina a tutti i livelli, e che la pratica della nonviolenza è un’alternativa praticabile – di fatto la nostra unica alternativa al suicidio collettivo 44(Orr, 2008, p. 237).

Il pensiero gandhiano

Un gruppo di studiosi e ricercatori di origine indiana ha pubblicato, nel 1988, una raccolta di saggi dal titolo “Science, hegemony and violence” (Nandy, 1988). Gli Autori partono dalla considerazione che in nome della scienza e dello sviluppo si possono chiedere oggigiorno enormi sacrifici, e si possono infliggere immani sofferenze, ai cittadini ordinari. Nella critica radicale che essi sviluppano nei confronti della scienza moderna essi focalizzano più volte l’attenzione sulla natura ‘violenta’ che sarebbe a loro parere intrinseca a questa forma di sapere: come sottolinea il Curatore nell’introduzione, gli Autori, quando parlano di violenza e nonviolenza in scienza, non hanno in mente solo il contesto della scienza, ma anche il testo. In altre parole, essi sostengono che la struttura cognitiva stessa della scienza moderna (il ‘testo’) ha inglobato in sé le categorie di pensiero proprie della società occidentale moderna, soffocando tutte le altre forme di pensiero scientifico che erano state elaborate da altre culture. La critica alla violenza della moderna tecnoscienza è stata ripresa e articolata negli anni successivi soprattutto da Vandana Shiva (2004, 2006), che nei suoi scritti fa spesso riferimento a Gandhi e ne mette in pratica le idee in una molteplicità di iniziative concrete.

Non solo Vandana Shiva con la sua critica alla ‘monocultura della mente’ indotta dal violento affermarsi della scienza occidentale, anche Nanni Salio e Jerry Ravetz fanno esplicito riferimento al pensiero di Gandhi quando sottolineano la nostra propensione a sbagliare, e l’importanza di assumere un atteggiamento di umiltà e di compiere azioni reversibili. Si tratta di due aspetti fondamentali del pensiero gandhiano, che attingono da un lato alla differenza (già citata) tra la Verità assoluta e le verità umane, parziali e fallibili, e dall’altro all’idea di nonviolenza: nella certezza di poter sbagliare, è essenziale non compiere atti irreversibili, dai quali non si può tornare indietro, e che possono rivelarsi dannosi.

Devi capire… io non rifiuto mai una verità scientifica che è stata stabilita. Ma dovresti notare anche che nell’ambito della scienza ciò che oggi viene accettato come vero non è improbabile che sia considerato falso domani. Le scienze basate sulla deduzione risentono sempre di questa imperfezione di fondo. Non possiamo perciò considerarle come verità assolute45(Gandhi, 1933, in Madhav 2009, p. 70).

Teoria e prassi – scienza e tecnologia

La ‘big science’ dei nostri tempi (cioè la scienza prodotta in costosi laboratori e da équipes numerose di studiosi, dotati di strumenti raffinati e potenti) viene da alcuni definita ‘tecno-scienza’, per sottolineare l’impossibilità di separare i due momenti: quello della ricerca pura, che si prefigge il compito di conoscere e misurare processi e fenomeni naturali, e quello dell’ applicazione tecnologica del nuovo sapere. Il momento dello studio e quello dell’azione sono sempre più spesso indistinguibili: lo studio avviene attraverso la manipolazione dei sistemi studiati. Non solo, ma la tecno-scienza non agisce più all’interno di contesti circoscritti e controllabili: gli esperimenti riguardano sempre più spesso ambienti aperti; il laboratorio è il pianeta stesso, e gli esiti delle sperimentazioni sono il più delle volte sconosciuti e imprevedibili.

Mentre la scienza accademica ufficiale continua a sostenere l’imparzialità della ricerca, e la possibilità di tenere separate la ricerca pura e la ricerca applicata46, sono sempre più numerose le critiche che – anche all’interno dell’accademia stessa – contestano questa posizione da più punti di vista. Mentre la teoria e la pratica potrebbero essere concettualizzate come corpi di conoscenza separate, che il ricercatore ‘visita’ alternativamente, l’obiettivo della prassi transdisciplinare è quello di coinvolgere e impegnare il ricercatore a mettere in relazione i due ambiti della conoscenza teorica e pratica47(Wickson et al. 2006, p. 1053).

La crescente difficoltà a separare teoria e prassi – scienza e tecnologia, viene segnalata anche dagli studiosi che affrontano problemi complessi: lavorando sulla teoria della complessità, sulla teoria delle gerarchie e sulla scienza post-normale emerge la necessità di incorporare una molteplicità di prospettive. Lo scopo è quello di conseguire una modalità di comprensione che permetta non solo di capire intellettualmente, ma anche di gestire tali sistemi complessi (Waltner-Toews & Kay, 2005).

Non è solo il riconoscimento della complessità a stimolare una visione di insieme più articolata e ‘inter-connessa’: anche l’esigenza di sostenibilità può essere una spinta potente verso un cambiamento di prospettiva: Da un punto di vista ambientale, l’esigenza di sostenibilità sta alimentando una crescente domanda di ricerche che tengano conto della complessità dei contesti e delle interazioni tra sistemi naturali e sociali. Nel contesto sociale le richieste a interagire con un pubblico sempre più coinvolto stanno orientando le ricerche in una direzione più partecipativa e deliberativa. Nel loro insieme queste due richieste mettono in luce un paesaggio di ricerca in trasformazione, che promuove una produzione di conoscenza orientata a risolvere problemi del mondo reale attraverso una ‘negoziazione di conoscenza collegata al contesto’48 (Wickson et al. 2006, p. 1047).

Il pensiero gandhiano

Gandhi concepiva la scienza come un’attività umana impegnata a favorire il miglioramento delle condizioni umane, quindi fortemente orientata all’azione. La sua teoria della tecnologia era parte dell’etica, quindi aveva una straordinaria connessione con la vita di tutti i giorni, un magnifico senso del concreto e delle sue inter-relazioni (Visvanathan, 1997). Inoltre – come riferisce il medesimo commentatore – egli auspicava l’integrazione di ‘corpo, mente e cuore’: la mente separata dal corpo può prostituirsi, proprio come fa un corpo senza mente.

La scuola gandhiana, secondo l’interpretazione di Ninan (2009), oltre a rifiutare il determinismo tecnologico e a situare contestualmente scienza e tecnologia, considerava ogni pratica tecnologica inscindibilmente legata alla sfera sociale, politica ed economica della vita.

Mentre nella tecnoscienza moderna il limite all’azione è imposto esclusivamente dai limiti della conoscenza, e ogni novità in campo tecnologico viene immediatamente utilizzata per alimentare nuove forme di conoscenza e per agire sul mondo, secondo Gandhi non sono né la scienza né la tecnologia a dover decidere quali tipi di ‘macchine’ sia opportuno usare, e per quale società (Bhave, 1955/2000).

I gandhiani, inoltre, esplorarono il potenziale democratico delle opzioni tecnologiche, e sottolinearono la relazione che – secondo loro – esiste tra il tipo di tecnologia (decentralizzata ovvero centralizzata) e la possibilità di organizzazione democratica della società (Ninan, 2009). In altri termini, Gandhi e i suoi collaboratori affermavano la natura sociale e politica degli artefatti tecnologici, come d’altronde denunciarono sempre la natura politica e sociale della conoscenza scientifica sviluppata negli ultimi secoli. Gandhi quindi non si opponeva ciecamente alla scienza o alla tecnologia: piuttosto, egli affermava la necessità di un controllo da parte della gente comune. Egli era convinto che fin dal 17° secolo la scienza, alleata degli interessi commerciali e mercantili delle classi abbienti, avesse portato a un atteggiamento predatorio nei confronti della natura: atteggiamento che si traduceva non solo in disastri ecologici, ma anche nella distruzione delle relazioni tra gli abitanti del mondo naturale. Non è interessante che molte delle idee di Gandhi siano state riprese oggi da una nuova generazione, che si oppone agli effetti disumanizzanti della globalizzazione rampante e della distruzione della terra come luogo di vita?49(Bigrami, 2007, pagina non numerata).

Aspetti economici: dai limiti biofisici ai limiti della crescita economica, dalla frattura tra economica ed ecologia al binomio ‘ecologia-equità’

La comunità scientifica vive una profonda contraddizione: mentre una parte di essa è impegnata a fornire gli strumenti per aumentare sempre di più, e sempre più rapidamente, i processi di trasformazione dei sistemi naturali, dai progetti di modificazioni globali del clima con la geoingegneria (Keith et al., 2010; Kintisch, 2010) all’alterazione dei processi evolutivi con la manipolazione dei genomi (per esempio ETC Group, 2007), un’altra parte sta moltiplicando le grida di allarme sull’uso insostenibile che l’uomo fa della natura. Sono state identificate numerose ‘soglie’(Fischer et al., 2007; Lenton et al., 2008; Scheffer et al., 2009) al di sopra delle quali – qualora vengano superate in conseguenza alle attività umane – si prevedono situazioni di instabilità e rischi di collasso dei sistemi dai quali l’umanità tutta dipende per ottenere il cibo, l’aria, l’acqua, il calore necessari per la vita.

Nell’ambito delle scienze della natura negli ultimi 30 anni si sono moltiplicati gli articoli scientifici che presentano dati sulla riduzione in atto delle risorse naturali – dai minerali alle foreste – e sull’aumento nella produzione di prodotti di scarto che causano inquinamento e degrado ambientale (Fisher et al., 2007; Rockstrom et al., 2009). Prendere atto dei limiti biofisici del nostro pianeta è il primo passo per concettualizzare la necessità di porre un limite alle esigenze umane.

Facendo riferimento all’uso sconsiderato delle risorse, molti studiosi hanno messo in discussione il ‘mito’ della crescita economica illimitata: dalla prima denuncia espressa dai membri del Club di Roma (Meadows et al., 1972), alla documentazione di una ‘impronta ecologica’ superiore alle disponibilità del pianeta (presentata da Wackernagel et al., 2002), fino ai dubbi sul modello dominante di consumi (Arrow et al., 2004) e alla documentazione sull’ineguale carico ecologico sopportato dai Paesi del Sud del mondo:

Benché gli andamenti delle emissioni e dei consumi non siano uniformi all’interno di ogni fascia di reddito, la nostra analisi mette in luce il danno ecologico che i paesi poveri sopportano per consentire indirettamente gli standard di vita delle nazioni più ricche50(Srinavasan et al., 2008, p. 1771).

Se dunque una parte delle conoscenze scientifiche alimenta – direttamente o indirettamente – un incremento delle attività economiche, un’altra parte delle conoscenze suggerisce di ridimensionare l’ uso delle risorse naturali, in quanto l’attuale ritmo di consumi viene valutato sconsiderato, pericoloso, ingiusto.

Una visione critica dell’economia liberista e delle sue conseguenze è già ben articolata negli anni ’90 del secolo scorso. Ne è un esempio la raccolta di saggi pubblicata a cura dello Sierra Club (Mander & Goldsmith, 1996) che comprende un’analisi puntuale della globalizzazione e delle sue (prevedibili) conseguenze in termini di distruzione degli ecosistemi e dei tessuti sociali. L’ Autore di uno dei saggi è Satish Kumar, attualmente direttore della rivista Resurgence, che si rifà espressamente a Gandhi: egli sostiene che l’economia non dovrebbe essere disgiunta dai profondi fondamenti spirituali della vita. Questo risultato si può conseguire, secondo Gandhi, quando ogni individuo si sente parte integrante della comunità; quando la produzione di beni è praticata su piccola scala; quando l’economia è locale; quando si dà preferenza agli oggetti fatti a mano localmente51. (Kumar, 1996, pagina non numerata).

Anche se la politica economica della maggior parte dei Paesi continua ad essere impostata secondo il modello dominante, che collega l’aumento del benessere con la crescita dei consumi, si stanno moltiplicando le iniziative – assunte anche da economisti – per mettere a punto una diversa concezione e una diversa prassi dell’economia. Uno dei più noti critici dell’economia tradizionale è il francese Serge Latouche (2007), che ha proposto il termine di ‘decrescita’ per sottolineare il radicale cambiamento di prospettiva da lui proposto.

In un recente articolo Latouche affronta il problema della traduzione’ del terminedécroissance – coniato in francese – ad altre lingue. E fa esplicito riferimento anche a Gandhi, sottolineando che con il termine ‘decrescita’ ci si riferisce all’idea di una ‘buona vita’, e che per esprimere questo concetto si usano parole diverse a seconda dei contesti. In altre parole, si tratta di ricostruire / riscoprire nuove culture. Se occorre assolutamente dare un nome a ciò, questo obiettivo può essere chiamato umran (fiorire) da Ibn Kaldûn; swadeshi-sarvodaya (migliorare le condizioni sociali di tutti) da Gandhi; bantaare (star bene insieme, dai Toucouleurs); oppure Fidnaa/Gabbina (la radiosità di una persona ben nutrita e libera da preoccupazioni) dai Borana dell’ Etiopia52 (Latouche, 2010, p. 520).

Martinez Alier (2007, 2009) articola l’idea di decrescita in un contesto globale e in situazioni di grande complessità, e si collega anche con le riflessioni di molti Autori (Sachs, 1997; Sachs & Santarius, 2007; Shiva, 2004, 2006) che da tempo segnalano la profonda ingiustizia di un sistema in cui il benessere di pochi cresce a scapito dei molti. Inoltre egli entra nel merito dei conflitti socio-ambientali, che con crescente frequenza accompagnano le attività di ‘sviluppo’ economico, e solleva esplicitamente un problema cruciale: chi ha il potere di decidere quando e come tirare le fila in una discussione di carattere ambientale?53 (Martinez Alier, 2009, p. 34).

Dunque, non solo le risorse offerte dai sistemi naturali del nostro pianeta sono limitate, come limitate sono le capacità di riassorbire e reintegrare nei cicli naturali i prodotti di rifiuto emessi dalle attività umane: esse non vengono utilizzate in modo equo. Di fatto, sotto l’etichetta ambigua di ‘sviluppo sostenibile’, la minoranza ricca e potente della Terra continua a saccheggiare le ricchezze ecologiche del pianeta, e a impoverire ulteriormente popolazioni già impoverite: Non è più possibile spostare le contraddizioni della povertà domestica fuori, sull’ecosfera e sui poveri del mondo. I limiti dell’ espropriazione impunita dell’ecosfera sono stati superati54(Ravetz, 2006 b, p. 282).

Wolfgang Sachs mette a fuoco uno dei nodi essenziali, quello della giustizia: Di fronte ad uno scenario di profonda diseguaglianza globale nell’uso delle risorse, è il Nord (e le sue appendici nel Sud) che ha bisogno di aggiustamenti strutturali. Oltre e prima ancora di ridistribuire le ricchezze, il Nord deve rivedere i propri modelli di produzione e consumo in modo da non privare i paesi del Sud di ciò che dovrebbero avere a disposizione. […] In futuro la giustizia sarà una questione di prendere di meno piuttosto che di dare di più. I paesi meno potenti nell’ambito dell’attuale generazione hanno bisogno di maggiore spazio ambientale per poter esprimersi e c’è bisogno che i paesi opulenti limitino se stessi come condizione di equità intra- e inter- generazionale. In breve, chi vuole giustizia deve parlare di sufficienza. (Sachs, 1997, pagina non numerata)

Sachs & Santarius (2007) ribadiscono con forza l’idea che dal riconoscimento al fondamentale diritto all’esistenza scaturisce il dovere di perseguire uno stile economico che non lo calpesti

Decrescita economica e giustizia globale, dimensioni di scala locali, senso di appartenenza a una comunità: concetti che si concretizzano in un cambiamento radicale dei modi di pensare e degli stili di vita (AA.VV., 2010): la semplicità volontaria, la frugalità e la sobrietà vengono indicate come le qualità necessarie per consentire questa epocale trasformazione. Si tratta di qualità che rimandano a un ambito di riflessione spirituale e alla ricerca di senso nella propria vita: non a caso – dunque – si stanno moltiplicando in questi ultimi anni i dialoghi e le collaborazioni tra i promotori di una economia sostenibile e le grandi tradizioni religiose e spirituali (Berkes, 1999; Burlando, 2003; Daniels, 2010, a, b; Gardner, 2002).

Una critica al pensiero economico dominante che – nel periodo in cui fu espressa – apparve radicale e utopistica nacque dalla rielaborazione del pensiero di Gandhi: Romesh Diwan (1998, 2000), uno studioso indiano che ha vissuto a lungo negli USA, ha contribuito a far conoscere il pensiero ‘economico’ di Gandhi: pensiero in cui emerge con evidenza l’interconnessione di considerazioni economiche, sociali e spirituali. Questo economista riprende sei concetti che secondo lui sono fondamentali nel pensiero economico di Gandhi, e che sono correlati tra loro in modo non gerarchico. L’ordine con cui questi concetti sono presentati è perciò irrilevante. Essi sono: swadeshi o auto-sviluppo; lavoro per il pane; aparigraha o non-possesso; amministrazione fiduciaria; non-sfruttamento; uguaglianza.

Uno studioso italiano, Roberto Burlando, per anni è stato allievo e collaboratore di Romesh Diwan e con tenacia ha sviluppato – in controcorrente al pensiero dominante nell’accademia – l’idea che proprio nel pensiero gandhiano si trovino gli elementi per costruire un’economia per una società sostenibile: L’insieme di questi principi traccia un quadro di economie orientate al perseguimento del benessere delle comunità locali, considerate le vere unità socio-economiche di un sistema eco-compatibile e indirizzato allo sviluppo del vero potenziale umano (Burlando, 2008, p. 28).

Il pensiero gandhiano

Gandhi aveva compreso lucidamente – ormai un secolo fa – che il progresso occidentale era insostenibile. Commentò in più occasioni questa sua idea, e alcune sue frasi sono rimaste famose:

  • Vivere semplicemente, per permettere agli altri semplicemente di vivere. Al mondo c’è abbastanza per soddisfare i bisogni di tutti, ma non l’avidità di ciascuno.

  • Il benessere è necessario, ma oltre un certo limite diventa un ostacolo. Dietro la creazione di bisogni illimitati si nasconde una trappola. La soddisfazione dei bisogni materiali deve avere dei limiti, altrimenti degenera in culto della materia. È il rischio che stanno correndo gli europei, e che avrà effetti devastanti se non compiranno un cambiamento radicale.

Gandhi fu molto lucido nell’individuare le caratteristiche di insostenibilità nel modello occidentale del ‘progresso’, e in molte occasioni si espresse a questo proposito, sottolineando la differenza tra appagamento impulsivo delle passioni e conseguimento di una tranquillità mentale:

L’uomo avverte che la sua mente è un uccello irrequieto, più ha più vuole, rimanendo sempre insoddisfatta. Più indulgiamo nelle nostre passioni, più esse diventano incontrollabili. I nostri avi, perciò, vi posero un limite. Essi compresero che in gran parte la felicità era uno stato mentale55 (Gandhi, 1909, p. 53)

Si trattava allora di proporre una via diversa al benessere. L’economia, che non può essere concepita a prescindere dall’etica, dalla politica e dalla religione, è la scienza del benessere umano e ha quale obiettivo il sarvodaya o benessere di tutti. Secondo Gandhi la vera economia vuol dire giustizia sociale, promuove il bene di tutti includendo ugualmente il più povero, ed è indispensabile per una vita dignitosa.

Nell’elaborare le sue idee in campo economico Gandhi fu affiancato da un altro pensatore, Kumarappa, che dopo un periodo di studio e lavoro in Occidente tornò in India ed elaborò le basi di quella che egli stesso chiamò ‘economia gandhiana’ (Kumarappa, 1951).

Di particolare interesse risultano, per la loro straordinaria modernità, alcuni concetti elaborati da Kumarappa nei suoi studi sull’economia gandhiana: in particolare – con le sue riflessioni sulle responsabilità che il compratore ha nei confronti del produttore – egli è stato anticipatore di movimenti sociali che appena adesso si stanno sviluppando: […] ad ogni articolo esposto in vendita al mercato sono attaccati dei valori morali. Non possiamo ignorare tali valori e dire ‘gli affari sono gli affari’. Beni prodotti in condizioni di schiavitù o di sfruttamento sono marchiati dalla clpa dell’oppressione56 (Kumarappa, 1948, p. 36).

Kumarappa ci sollecita a indagare su ciò che sta a monte di ogni articolo che compriamo, sottolineando che le caratteristiche di un articolo di uso quotidiano che dobbiamo tenere in conto per conoscere interamente le ripercussioni della nostra operazionedi compra-vendita ci inducono a porci una serie di domande:” che cosa sappiamo sulle origini di un articolo? chi lo ha prodotto? con quale materiale? in quali condizioni i lavoratori vivono a lavorano? quale percentuale del prezzo finale va nel salario di chi lo ha fatto? come viene distribuito il resto del denaro dell’acquisto?57(Kumarappa, 1968, p. 13).

Proprio cercando di rispondere a queste domande si sono sviluppate – parecchi decenni dopo – le esperienze del commercio equo, e gli studi che mirano a ricostruire i diversi passaggi e processi lungo le filiere produttive e a valutarne le implicazioni ambientali ed etiche.

Un altro concetto elaborato da Kumarappa riguarda la relazione tra il livello di scala di un’attività produttiva e il grado di democrazia che si può esercitare. Anticipando – anche in questo caso – con le sue intuizioni dei modi di pensare elaborati molti anni dopo, Kumarappa affermò: […] In economia, l’industria su larga scala è l’antitesi della democrazia in politica. Non è un caso vedere dove sono arrivate le nazioni occidentali con la loro organizzazione economica. E’il risultato del loro modo di pensare in termini di autocrazia. Si ritrovano con dittature quanto a organizzazione politica, e industrie centralizzate in campo economico. Questi due aspetti vanno insieme, non possiamo avere l’uno senza l’altro58(Kumarappa, citato da Ninan, 2009, p. 188).

Relazioni con la natura

E’ sterminata la letteratura che testimonia un senso profondo di appartenenza alla natura, e che riconosce alla natura un ruolo cruciale non solo per la nostra sopravvivenza fisica, ma anche per la nostra possibilità di esprimere creativamente noi stessi, e di allacciare relazioni costruttive con gli altri membri della comunità umana e con gli altri viventi, di scoprire la nostra identità più profonda. Negli ultimi 50 anni, di fronte al dilagante inurbamento, al drammatico degrado degli ecosistemi, alle interferenze sempre più profonde con i processi evolutivi59 si sono ulteriormente moltiplicate le riflessioni, i saggi, le ricerche scientifiche, sociali e psicologiche sulle nostre relazioni con la natura.

Nell’ambito delle ricerche e delle riflessioni sulla sostenibilità alcuni Autori attribuiscono grande importanza alle competenze che si possono acquisire attraverso la relazione diretta con la natura, senza la mediazione del trasferimento culturale di informazioni. In questo senso, un grande anticipatore è stato Arne Naess, con l’elaborazione dell’idea di ‘ecologia profonda’(1994). Egli affermò con forza che l’umanità, se vuole evitare di essere sostituita, deve smetterla di lottare contro la natura. Secondo lui, con il progresso delle loro conoscenze, con una maggiore sensibilità alle relazioni interne agli ecosistemi, gli uomini potrebbero scoprire una dimensione di vita caratterizzata da semplicità di mezzi materiali e incredibile ricchezza di fini.

Joanna Macy, all’inizio degli anni ’90, è in aperto conflitto con l’idea dell’umanità separata dalla natura, elaborata dalla cultura dominante, e propone di estendere i confini del proprio corpo, […] sostituito da più ampi costrutti di identità e di riconoscimento di sé che potremmo chiamare sé ecologico o eco-sé, co-esteso con gli altri viventi e con la vita del nostro pianeta. Chiamerò questa nuova percezione il “rinverdire del sé”60 (Macy, 1990, p. 53).

Questi pensieri, sviluppatisi in ambiti di riflessione filosofica e spirituale, vengono ripresi e articolati da studiosi interessati all’educazione ambientale, preoccupati del drammatico degrado dei sistemi naturali e impegnati a trovare delle vie per ri-orientare le relazioni tra umanità e natura. Il termine ‘identità ecologica’ si riferisce a come la gente costruisce se stessa in relazione alla terra, esprimendosi nella personalità, nei valori, nelle azioni, nel senso di sé…[…] . L’interpretazione delle esperienze di vita trascende le interazioni sociali e culturali. Include anche le connessioni di una persona alla terra, la percezione degli ecosistemi, e l’esperienza diretta di natura61 (Thomashow, 1996, p. 3).

Nella transizione dall’educazione ambientale verso l’educazione alla sostenibilità, il problema della relazione tra il senso di sé e il mondo naturale viene ripreso e articolato: […] E’ evidente che affrontare il tema della sostenibilità in termini di visione generale non riguarda solo i nostri atteggiamenti verso la natura, ma rimanda a una prospettiva basata su un insieme di considerazioni di base etiche, epistemologiche e metafisiche, che descrivono l’essere umano. […]L’alienazione dalla natura e dal nostro sé sono strettamente interconnesse: è questa la chiave per spiegare la nostra capacità di saccheggiare volontariamente l’ambiente. Se amiamo (diamo valore) a noi stessi, ameremo (daremo valore) a ciò che crediamo ci sostenga. In questo senso parte dell’educazione alla sostenibilità come visione generale si propone di riconnettere le persone con le loro origini e fonti di vita, e di sviluppare l’amore per sé 62 (Bonnett, 2006, p. 270).

Il pensiero gandhiano

Gandhi sosteneva che un obiettivo primario dell’uomo fosse ridurre il proprio Ego e allargare il proprio Sé, passando da un Sé strettamente individuale, egoistico, verso un Sé transpersonale, in grado di abbracciare via via una quantità crescente di esseri viventi. Egli anticipò dunque il nucleo principale dell’ecologia profonda, sottolineando l’inclusione dell’umanità nella rete della vita. Shiv Visvanathan (1997, p. 233) afferma che per Gandhi il corpo era un microcosmo dell’universo, ed egli sognava una duplice armonia: l’armonia del corpo con le parti che lo compongono, e l’armonia tra il corpo e il suo ambiente, in particolare la terra, l’acqua, la luce e l’aria63.

In molti suoi scritti Gandhi si richiama alla Natura, estendendo ad essa le stesse modalità di relazione che auspicava tra gli esseri umani: il principio della nonviolenza, centrale all’etica della cultura umana, deve essere secondo lui ispiratore di ogni movimento di salvaguardia della natura. Il concetto di amministrazione fiduciaria vale anche per gli altri viventi: è una assunzione arrogante dire che gli esseri umani sono padroni e dominatori delle creature inferiori. Al contrario, aver ricevuto maggiori cose dalla vita li rende responsabili nei confronti del regno animale inferiore.64 (Moolakkattu, 2010, p. 156).

Se da un lato Gandhi sottolinea l’appartenenza dell’uomo alla natura, dall’altra si preoccupa di chiarire la qualità della relazione che sarebbe opportuno stabilire tra l’umanità e gli altri esseri: coerentemente con i suoi principi, Gandhi si richiama all’ahimsa – la nonviolenza- e all’aparigraha – il non-attaccamento: ogni atteggiamento predatorio nei confronti della natura e delle sue risorse va dunque rifiutato.

Tuttavia, mentre Moolakkattu (2010) sottolinea la visione ecologica di Gandhi, Guha (2006) ritiene che Gandhi non possa essere definito egli stesso un ‘ambientalista’: è stata invece la sua visione etica del mondo, basata sulla sobrietà, sul rispetto, sulla nonviolenza, ad avere ispirato – tra gli altri – anche persone e movimenti divenuti poi famosi per la loro difesa dell’ambiente – dal Movimento Chipko a Sunderlal Bahuguna, fino a Metha Paktkar in tempi più recenti (Guha, 2006).

Anche Kumarappa fa esplicito riferimento alla Natura e alle sue leggi. In un libro dal titolo “Economia della permanenza” (1984), egli osserva che in natura le creature coesistono in modo tale che ciascuna svolge un suo ruolo preciso e necessario. Secondo lui, in questo modo la natura coinvolge cooperativamente tutte le sue unità, ciascuna delle quali lavora per sé e contemporaneamente – nel processo – aiuta le altre a procedere.

Quando ciò si manifesta armoniosamente, e non interviene la violenza a spezzare la catena, abbiamo un’economia della permanenza: in un’economia della permanenza – afferma Kumarappa – ci si aiuta l’un l’altro. Al contrario, in un’economia della transienza ciascuno pensa solo al proprio bene. Un’economia della transienza è violenta, e finisce per disgregare la natura.

Kumarappa è molto consapevole del carattere sistemico e interdipendente dei processi naturali, e fa riferimento nei suoi scritti al ‘ciclo della vita’. Egli afferma che se questo ciclo viene spezzato, in qualunque momento, consciamente o inconsciamente, la conseguenza è una violenza, e l’esito finale è distruzione e spreco. La natura non perdona. Perciò è interesse per sé e per la propria sopravvivenza l’assunzione di una completa nonviolenza, cooperazione e sottomissione ai modi della natura.Quando studiamo le istituzioni umane non dovremmo mai perdere di vista la grande maestra, madre natura. Qualsiasi cosa possiamo mettere a punto che risulti contrario al suo modo di funzionare, presto o tardi si distruggerà. A quanto sembra, tutto in natura segue un andamento ciclico. L’acqua dal mare sale come vapore e ricade sulla terra come una doccia rinfrescante, per ritornare ancora al mare… Una nazione che nel formare le sue istituzioni dimentica o ignora questo processo fondamentale si distruggerà 65 (Kumarappa, citato da Ninan, 2009, p. 185).

L’educazione

A partire dalle prime iniziative di educazione ambientale, sviluppatesi intorno agli anni ’70, l’attenzione degli educatori nei confronti delle relazioni tra giovani e natura è progressivamente aumentata, fino a coinvolgere non più singoli ambiti, ma il processo educativo nella sua interezza. Sono stati sviluppati gli aspetti psicologici, storici e sociali del rapporto tra umanità e natura, e parallelamente sono stati approfonditi gli studi scientifici di carattere ambientale. L’ecologia è diventata materia di studio a tutti i livelli di scolarità, in alcuni casi come descrizione ‘scientifica’, oggettiva dei sistemi naturali, in altri come indagine critica e riflessiva delle relazioni di interdipendenza tra le società umane e gli ambienti che le ospitano.

Tomashow (1996) intende lo sviluppo di una “identità ecologica” come esperienza di apprendimento personale e collettivo, e come progressiva conquista di una cittadinanza ecologica che consenta una partecipazione politica consapevole. Secondo questo Autore la cittadinanza ecologica si incardina su un aspetto concettuale cruciale, l’integrazione tra identità ecologica e politica. Le esperienze personali (il senso di appartenere a una comunità di specie, la comprensione del concetto di beni comuni (‘commons’), il livello di identificazione con la natura e gli ecosistemi) si realizzano in contesti sociali: inevitabilmente quando la gente lavora insieme, condivide gli stessi habitat a prende decisioni sui beni comuni, emergono aspetti che riguardano potere e controversie. L’identità ecologica emerge in un contesto sociale e politico (Thomashow, 1996).

Mentre un filone dell’educazione ambientale esplorava le possibili vie di ricomposizione tra umanità e natura, l’educazione scientifica – soprattutto ai livelli di scolarità più alti – si è progressivamente orientata verso la trasmissione di nozioni consolidate e organizzate in ambiti disciplinari ben distinti, che lo studente è invitato a padroneggiare per poter manipolare e trasformare la natura a vantaggio dell’umanità. Tuttavia si stanno moltiplicando le voci critiche, che mettono in discussione sia questo assunto epistemologico sia le modalità, prevalentemente trasmissive, che caratterizzano la relazione tra docenti e studenti e che rafforzano – anche implicitamente – l’idea di una separazione tra ‘esperti’ e ‘non esperti’ . Tra le voci critiche ne segnaliamo alcune, che si rifanno esplicitamente a una ‘educazione alla sostenibilità’.

Il recupero e la valorizzazione delle conoscenze tradizionali indigene

Un interessante filone di ricerca didattica è orientato a rivalutare e a valorizzare le vaste conoscenze che tanti popoli hanno elaborato nel corso di millenni nei loro specifici contesti di vita: si tratta di quelle che vengono definite “conoscenze ecologiche tradizionali” (TEK = Traditional Ecological Knowledge). Questo recupero ha una duplice valenza: da un lato consente di caratterizzare l’educazione scientifica in senso interculturale, dall’altro consente di arricchire le conoscenze occidentali con saperi a noi sconosciuti, ed elaborati con processi diversi, attraverso l’esperienza diretta e la narrazione, la trasmissione orale da parte dei saggi.

Due Autori (Snively e Corsiglia, 2001) nel proporre di includere nell’educazione scientifica anche le scienze TEK, sottolineano il contributo che i popoli indigeni hanno dato alla scienza, alla consapevolezza ambientale, alla sostenibilità. Non solo: essi fanno notare che, quando la scienza occidentale moderna viene definita come universale, essa di fatto svalorizza o esclude la conoscenza locale indigena, pragmatica, che non è conforme con gli aspetti formali dei ‘requisiti standard’.

Secondo questi Autori […] La non disponibilità a riconoscere la conoscenza indigena come ‘scienza’ distorce il quadro storico; indebolisce l’obiettività nell’educazione Aborigena, multiculturale e anche in quella dominante; ostacola gravemente gli approcci ad alcuni dei problemi più controversi ed estenuanti che riguardano l’ambiente, la tecno-scienza e la socio-economia66 (Snively & Corsiglia, 2001, p. 29).

Berkes & Berkes (2009, p. 12), mettendo a confronto alcune caratteristiche del pensiero ‘occidentale’ con quello dei popoli indigeni, sottolineano che la soluzione scientifica convenzionale è stata quella di quantificare un numero limitato di variabili, mentre la soluzione nella conoscenza indigena è stata quella di trovare dei modi per percepire il continuum della natura e lavorare con esso67. E ancora: I sistemi complessi, come il cambiamento climatico, si manifestano a vari livelli, non vi è un solo livello corretto di analisi. Il sistema deve essere analizzato simultaneamente su molte scale geografiche, dal locale al globale. Il fatto che la conoscenza indigena offra una comprensione a livello locale è particolarmente importante perché risulta complementare alla scienza, che proprio a quel livello ha scarse informazioni68(Berkes & Berkes, 2009, p. 11).

L’educazione partecipativa e lo sviluppo di pensiero critico

Un movimento educativo molto vasto, che ha coinvolto dapprima pedagogisti e psicologi, per poi interessare anche alcuni insegnanti di singole discipline, tra cui quelle scientifiche, ha promosso una trasformazione della relazione educativa: dapprima incentrata sul ruolo chiave dell’insegnante, poi focalizzata sul singolo studente e sulle sue capacità o difficoltà a ‘costruire’ concetti, e infine attenta alle dinamiche di relazione all’interno di una ‘comunità educante’ in cui tutti partecipano a un processo riflessivo da cui scaturiscono nuove consapevolezze e nuove competenze (linguistiche, conoscitive, metodologiche, relazionali: Camino & Dodman, 2009).

L’educazione partecipativa (per sua natura trasformativa) viene considerata da alcuni Autori come elemento necessario a promuovere la sostenibilità: essa infatti non si limita a promuovere nuove conoscenze, ma sviluppa competenze sociali, capacità di ascolto, attenzione per la complessità e molteplicità dei punti di vista, attitudine a porsi domande. Essa inoltre mette in discussione le relazioni gerarchiche tra chi sa e chi non sa. Polk & Knutsson (2008, p. 645) sottolineano la centralità del processo di integrazione di attori non accademici nella produzione di conoscenza mirata a conseguire scopi sociali […] … l’atteggiamento riflessivo e la responsabilità sociale riguardano sia i ricercatori sia le persone coinvolte, e le interazioni tra di loro69: caratteristicheche secondo questi Autori emergono solo se si instaura un processo di mutuo apprendimento.

Molti contributi e ricerche sull’educazione alla sostenibilità sottolineano l’importanza di promuovere nei giovani la capacità di elaborare un pensiero autonomo, capace di cogliere le assunzioni implicite e le visioni del mondo che sono alla base di ogni forma di conoscenza; un pensiero che permetta di tener conto di una varietà di prospettive e di operare concretamente nel proprio contesto. Così, una caratteristica fondamentale dell’ecologia del ventunesimo secolo è il pluralismo degli approcci teorici e metodologici che dovrebbero caratterizzare ogni prospettiva scientifica, in sintonia con l’attuale filosofia della scienza. […] L’educazione ambientale mira a sviluppare quelle capacità di pensiero critico che sono necessarie per prendere decisioni personali informate e basate sulla ragione, e in grado di rendere le persone capaci di prendere iniziative concrete su questioni ambientali70(Korfiatis, 2005, p. 241).

Un numero crescente di studiosi parla di educazione ‘trasformativa’: secondo Räthzel and Uzzell (2009) essa riguarda nuove forme di partecipazione democratica che si propongono non tanto di rispondere a domande già poste, quanto di formulare nuovi interrogativi e di ridefinire i problemi dal punto di vista di coloro che finora sono stati considerati oggetti dell’educazione, ma che dovrebbero diventarne i soggetti, i protagonisti.

Si tratta di un approccio all’educazione che da un lato ben si connette con l’idea di scienza post-normale (che presuppone una partecipazione allargata alla costruzione di conoscenza), dall’altro – come segnalano Seiler & Abraham (2009) – riprende e attualizza la scuola di pedagogia sociale di Paulo Freire (1973), con le tappe di alfabetizzazione, coscientizzazione, liberazione.

Il coinvolgimento della mente, del cuore, della mano

L’educazione alla sostenibilità, dunque, tende a riproporre nel contesto dei percorsi formativi alcune idee enunciate dalla ‘sustainability science’: il superamento delle differenze gerarchiche tra chi sa e chi non sa, l’importanza di assumere una molteplicità di punti di vista, la valorizzazione di conoscenze non accademiche. Ma come si propone, operativamente, di conseguire un ambiente educativo adeguato, così diverso da quello tradizionale, disciplinare e gerarchico? Secondo Cortese (2003, p. 17), che si riferisce all’educazione universitaria, tutte le parti del sistema universitario sono cruciali per ottenere un cambiamento trasformativo, che può realizzarsi solamente mettendo in relazione la testa, il cuore e le mani71.

Un contributo interessante all’educazione alla sostenibilità – pubblicato in un numero speciale dell’International Journal of Innovation and Sustainable Development – è quello di Brian Goodwin – uno studioso che si è molto impegnato a promuovere un’idea di scienza ‘olistica’, e al recupero della dimensione qualitativa nella ricerca. A proposito dell’educazione Goodwin, riferendosi all’educazione superiore, afferma che il concetto di università dovrà essere radicalmente ripensato,nei termini di un processo educativo che fornisca alle persone le abilità pratiche necessarie per sostenere la comunità locale, e le aiuti a comprendere la storia culturale che le ha portate al momento attuale di transizione. […] In questo sistema ci sarà una varietà di possibilità di apprendimento, ciascuna appropriata alla singola persona, ma tutte si baseranno su una comprensione condivisa dei principi ecologici e culturali in quanto espressioni di un processo creativo in cui tutto è implicato, umano e non-umano, animato e inanimato […]. L’apprendimento sarà basato sull’acquisizione di abilità pratiche, tramite il coinvolgimento diretto, esperienziale, con la manualità e il luogo, integrato con la ricerca e lo studio che guidano i processi di innovazione e la trasformazione sociale. L’acquisizione di abilità avrà una importante dimensione cooperativa, con un’enfasi per lo sviluppo di attività significative per la comunità, incoraggiando al tempo stesso la creatività individuale […] 72 (Goodwin, 2007, p. 337).

Oltre alle numerose – e più note – esperienzedi ‘attività in campo’ promosse soprattutto nell’ottica di una educazione PER l’ambiente, da qualche anno sono in corso alcune esperienze educative che propongono il ‘silenzio attivo’ come pratica in grado di favorire lo sviluppo di un senso di inclusione nella natura, e di empatia e rispetto verso gli altri esseri – umani e non.

Riconoscere il valore del silenzio e concedergli spazio significa orientare complessivamente il nostro sguardo sulla vita: un contatto profondo con l’interiorità, una precisa modalità di relazione con gli altri, un modo di guardare il mondo e di collocarci in esso e di contribuire a crearlo.[…] L’idea guida è che tutte le dimensioni del nostro essere, infatti, siano interessate nello sviluppo di un senso profondo di inclusione nei sistemi naturali che ci ospitano e alimentano non solo i nostri corpi, ma la nostra creatività, sino ad arrivare a cogliere il senso di Gaia, il nostro pianeta vivente. La pratica del silenzio può contribuire in modo sostanziale a integrare tra loro e a sviluppare armonicamente conoscenza scientifica e conoscenza esistenziale, a far fiorire l’attenzione e ad attivare relazioni empatiche (Barbiero et al., 2007, p. 13).

Nella letteratura recente sull’educazione alla sostenibilità è dunque presente una varietà di approcci, metodologie, riflessioni teoriche e suggerimenti pratici: talvolta vengono proposti isolatamente gli uni dagli altri, in altri casi viene posta particolare cura nel sottolineare l’importanza di operare su più ambiti e a più livelli contemporaneamente.

Il pensiero gandhiano

La formazione del carattere è un tratto essenziale del pensiero gandhiano. Essa è il prerequisito di una ‘elevatezza etica’ di cui l’educazione autentica ha bisogno per potersi rappresentare quale educazione integrale. Gandhi ribadì in numerose occasioni l’idea di una dimensione olistica della pedagogia, secondo cui
va coinvolto tutto l’essere del fanciullo, non soltanto la sua mente, ma anche le sue mani, la sua emotività, la sua anima (Manca, 1981).

Gandhi, insieme a Vinoba Bhave, che lo accompagnò nelle campagne di disobbedienza civile e fu rappresentante dell’area più spirituale del movimento gandhiano, elaborò teoricamente e avviò praticamente un progetto di Nuova Educazione (Nai Talim) negli anni ’40 del secolo scorso.

Al centro del programma educativo delineato nel Nai Talim campeggia il lavoro manuale. Nella concezione umana e pedagogica gandhiana, il filatoio (charkha) è il simbolo della filosofia pratica per il nonviolento autentico, la punta di diamante di una rivoluzione lenta, silenziosa e pacifica, eppure dotata di un irresistibile potere di lanciare, nel suo incedere, segni di speranza per il futuro dell’umanità. Dal punto di vista strettamente educativo, l’attività manuale si pone non come materia di insegnamento che affianca le altre discipline, bensì quale solida struttura su cui innestare ogni oggetto di conoscenza. Ne scaturisce un metodo innovativo ed affascinante che si propone di insegnare cognizioni di storia, geografia, aritmetica o geometria servendosi dell’attività manuale.

Si dovrebbe insegnare ai bambini un metodo che consenta loro di studiare in modo autonomo, e di acquisire conoscenze indipendentemente dal rapporto con l’insegnante. […] Bisognerebbe insegnare ai bambini ad acquistare confidenza nelle proprie capacità. E ancora: la vita, gli avvenimenti e le esperienze del villaggio saranno la base sulla quale si svolgerà il processo educativo. Nessuna situazione si presta, meglio di quella che si riscontra in un villaggio, all’osservazione della natura e allo studio della biologia, all’indagine sociale, alle riflessioni di etica e di filosofia. […] L’insegnamento scientifico dovrebbe fare riferimento alla vita e alle esigenze quotidiane della gente. […] Grazie allo studio delle discipline scientifiche dovrebbe essere possibile migliorare gli strumenti di lavoro e l’esecuzione delle attività pratiche. […] La scienza è necessaria, ma non dovrebbe mai procedere disgiunta dalla nonviolenza. La scienza e la consapevolezza di sé dovrebbero procedere sempre di pari passo. (Vinoba, citato da Camino, 1985, p. 14).

Ancora Vinoba dedica un paragrafo, nel suo breve testo sulla Nuova Educazione, a “La conoscenza di sé e la scienza”, e afferma: Molti hanno l’impressione che la riflessione su di sé e lo studio della scienza siano attività in contrasto. Essi tendono ad associare la scienza con il materialismo.: questo è un errore. Anzi: la scienza può offrire gli strumenti per approfondire enormemente la conoscenza di sé. […] Noi desideriamo impostare la nostra società sulla base di una effettiva auto-conoscenza. La scienza ci libererà dagli errori insiti nelle nostre tradizioni etiche e religiose; la conoscenza della nostra essenza interiore ci consentirà di superare tutte le divisioni e la struttura sociale del sarvodaya eliminerà questa visione ristretta, focalizzata su di sé e sulle proprie cose. Tutti e tre gli elementi ci sono utili: la scienza, la conoscenza di sé, il sarvodaya (Vinoba, citato da Camino, 1985, p. 21).

Uno studioso che ha dedicato grande impegno all’analisi del pensiero gandhiano è Fulvio Cesare Manara. In molti dei suoi scritti egli esamina e commenta le idee di Gandhi sull’educazione, rendendole disponibili al pubblico al di là della stretta cerchia di specialisti. Riporto qui solo alcuni brani da lui scritti, e invito il lettore interessato a consultare la sua vasta produzione73

Gli istituti educativi, in altre parole, avrebbero dovuto occuparsi non solo della crescita della persona, ma anche di quella dell’intera società. Questo per due ragioni: a) il fine della formazione dell’individuo è quello di divenir capace di portare un contributo personale e costruttivo al progresso sociale (che per Gandhi non era, com’è noto, sinonimo di progresso tecnologico). Ma anche, b) perché l’educazione e l’istruzione dovevano contribuire al raggiungimento dello swaraj da parte della comunità, il che per Gandhi implicava la rinascita dei villaggi, la riconquista dell’autonomia a livello economico, e dell’autogoverno a livello politico. Gli istituti educativi avrebbero dovuto essere già nel presente segno della possibilità dello swaraj, ossia “il segno di una possibilità di vita futura nonviolenta, mostrando e dimostrando la bontà dell’autogoverno e dell’autosufficienza”. Per queste ragioni, la scuola stessa, le stesse istituzioni educative avrebbero dovuto esse stesse venir fondate sui principi basilari dell’apertura a tutti e della tolleranza, della democrazia e della cooperazione. Gandhi […] ritiene che la realizzazione della persona sul piano personale non potesse avvenire rimanendo estranei al proprio ambiente, ai suoi problemi, e, in ultima analisi, anche alle prospettive di trasformazione e di cambiamento che si ritenevano adatte ad esso (Manara, 1994, pagina non numerata).

In particolare, sull’insegnamento delle scienze Gandhi aveva idee coerenti con la sua personale idea di scienza, sopra esposta. Come rileva un suo commentatore, è chiaro che nel Nai Talim di Gandhi l’educazione scientifica non doveva procedere nella ricerca di isole di eccellenza in un mare di mediocrità. Occorreva lavorare proprio sulle basi dell’educazione, in modo tale che non si creassero delle gerarchie di conoscenza tra gli scienziati (intesi come esperti) e la popolazione. Egli voleva vedere moltiplicarsi il numero di scienziati e ingegneri nei villaggi, un aumento della forza-lavoro scientifica in India che non doveva essere misurata sulla base dei titoli accademici, ma realizzarsi nel formare scienziati che fossero veri servitori della nazione 74(Prasad, 2001, p. 3279).

Gandhi ipotizzava che gli operatori di villaggio (che facevano parte del Gandhi Seva Sangh), non fossero semplicemente dei lavoratori abili: egli riteneva che dovessero essere ‘artigiani esperti e ricercatori scientifici’75 (Gandhi, 1940), in grado di lavorare insieme agli abitanti dei villaggi condividendo e sviluppando competenze di ordine superiore.

Nel già citato documento ‘Knowledge Swaraj’ (KICS, 2009), in cui gli Autori riprendono e attualizzano le idee espresse da Gandhi nel suo ‘Hind Swaraj’, si fa un cenno al ruolo dell’educazione: valore e stima di sé diventano i traguardi centrali dell’educazione, piuttosto che la produzione di forza – lavoro volonterosa e irriflessiva in istituzioni ingannevolmente libere da valori.

Più esplicitamente Sunil Sahasrabudhey (2010) tratteggia la visione di una università basata sul pensiero di Gandhi e sul concetto di lokavidya: Re-inventare l’università – come viene qui suggerito, richiede di riconcettualizzarla come luogo di attività di conoscenza organizzata situate in un mare di conoscenza: persone, contadini, artigiani, donne, artisti e una varietà di altri soggetti – tutti visti come soggetti di conoscenza, che svolgono le loro attività – quelle quotidiane e quelle specialistiche – sulla base della propria conoscenza, per lo più non derivante dall’università.

Conclusioni

Esplorando la letteratura sulla ‘sustainability science’ e sull’educazione alla sostenibilità ho trovato espresse molte idee che mi sono sembrate in armonia con il pensiero gandhiano, come ho cercato di illustrare nelle pagine precedenti. In alcuni casi gli Autori si rifanno esplicitamente alle idee di Gandhi, in altri casi arrivano ad elaborare concetti e visioni ‘gandhiane’ senza riconoscerlo o senza dichiararlo.

Per quanto riguarda l’educazione alla sostenibilità, si nota una grave frattura tra i contributi – consapevoli e ben articolati – di molti ricercatori in ‘science education’ e la prassi corrente nelle università e nelle scuole, ancora cristallizzate in una visione dell’educazione scientifica e della relazione insegnanti / studenti che non è più adeguata alla drammatica emergenza sociale, ambientale e valoriale dei nostri tempi. Purtroppo l’establishment accademico – almeno per quanto riguarda l’educazione della ‘materie’ scientifiche – persevera a proporre insegnamenti disciplinari sempre più specialistici, ignorando la vastità e la qualità delle ricerche, dei saggi, delle riflessioni che mettono in evidenza l’esigenza di passare da una scienza astratta, oggettivante, decontestualizzata a una scienza interdisciplinare, riflessiva e auto-critica, che coinvolga l’intera persona (la sua mente, il cuore, le mani) e che sia utile ai giovani per dare senso a sé, alle proprie azioni, ai propri progetti in un mondo reale. Aikenhead, uno degli studiosi che più si è impegnato a promuovere un’educazione scientifica ‘rilevante’, afferma che finché la scienza accademica rimane una priorità nei programmi scolastici di scienze, essa soffocherà e bloccherà il conseguimento di un’esperienza produttiva ed educativamente significativa 76(Aikenhead, 2010, p. 615). E ancora: La saggezza-in-azione rappresenta un traguardo umano fondamentale: diventare più saggio nel vivere adeguatamente nel mondo77. (Aikenhead, 2008, p. 584). Il modo con cui si insegna la scienza – Aikenhead ne è ben consapevole – è un problema non solo educativo, ma politico – come sottolineato a suo tempo da Gandhi.

Sul versante della ‘sustainability science’, rileggere gli scritti di Gandhi e dei suoi collaboratori può aiutare a integrare in una visione di sintesi molti degli spunti offerti – spesso in ambiti disciplinari separati gli uni dagli altri – da alcuni degli Autori citati nelle pagine precedenti: l’accettazione della propensione all’errore; la pratica dell’ascolto e del confronto tra una pluralità di legittime visioni; l’empowerment dei cittadini come presupposto per la democrazia partecipativa (le decisioni prese per consenso, anche qui sulle orme di Gandhi); la scelta di privilegiare azioni reversibili nella prospettiva di poter sbagliare; la frugalità come unica scelta compatibile con la giustizia ecologica.

Si tratta di alcuni concetti chiave a partire dai quali Gandhi aveva illustrato con semplicità e chiarezza le vie da percorrere per costruire una società serena, equilibrata e ‘sostenibile’. Al cuore della visione gandhiana vi è la riflessione sulle diverse forme con cui si manifesta (esplicitamente o occultamente) la violenza, e l’opzione per una pratica di nonviolenza, ahimsa, sia nelle relazioni interpersonali sia in quelle tra gruppi e collettività. Inoltre Gandhi sostiene l’inseparabilità e l’interdipendenza delle tre dimensioni – fatti, teorie, valori – ed esplicitamente si richiama all’etica come elemento in grado di orientare nelle scelte. A questo proposito è rimasto famoso il suo ‘Talismano’:

Ti darò un talismano.

Ogni volta che sei nel dubbio

o quando il tuo “io” ti sovrasta,

fa’ questa prova:

richiama il viso dell’uomo più povero e più debole

che puoi aver visto

e domandati se il passo che hai in mente di fare

sarà di qualche utilità per lui.

Ne otterrà qualcosa?

Gli restituirà il controllo

sulla sua vita e sul suo destino?

In altre parole,

condurrà all’autogoverno

milioni di persone

affamate nel corpo e nello spirito?

Allora vedrai i tuoi dubbi

e il tuo “io” dissolversi.

Tra gli Autori che ho preso in esame solo alcuni – come Burlando (2004), Ravetz (2006, a, b), Saravanamuthu (2005, 2006, 2008) fanno riferimento esplicito a Gandhi: il primo articola ampiamente il suo pensiero a partire delle idee di Gandhi, il secondo dichiara di essere appena all’inizio di una riflessione su questo aspetto, la terza imposta l’intera sua riflessione e ricerca di pratiche sostenibili a partire dalle idee di Gandhi. Nell’ambito dell’educazione alla sostenibilità – per quel che riguarda l’area scientifica – i riferimenti a Gandhi sono più limitati, e spesso impliciti. In altri ambiti di studio, – che non rientrano esplicitamente nel filone della ‘sustainability science’ – sono invece numerosi i ricercatori che hanno ripreso e sviluppato il pensiero di Gandhi: tra i tanti, mi limito a segnalare Galtung (1987, 2000) e Pontara (1996 a, b, 1998).

Rimane finora poco esplorata, nella sustainability science e nella ricerca didattica sull’educazione alla sostenibilità, l’analisi delle condizioni di insostenibilità create dalle situazioni di violenza: non solo la violenza diretta, individuale e collettiva, ma la violenza culturale e strutturale che la alimentano, la promuovono, la giustificano (Galtung, 2000). Quanto ci sarebbe da riflettere, per esempio, sulla violenza culturale e strutturale nascosta dietro tanti programmi di scienze, orientati a proporre la moderna tecno-scienza come sapere ‘universale’, superiore alle altre forme di conoscenza? O la violenza di mettere a punto strumenti di valutazione che non tengono conto delle diverse attitudini e interessi dei giovani, della loro individuale, preziosa unicità?

Più specificamente, nella letteratura scientifica pubblicata sotto l’etichetta di ‘sustainability science’ (per esempio nello spazio appositamente dedicato dalla prestigiosa rivista PNAS) e nelle pubblicazioni di ricerca didattica sull’educazione scientifica non ho trovato articoli che chiamino direttamente in causa e analizzino il ruolo e le responsabilità dei sistemi militari – in tempi di pace come in tempi di guerra – nel produrre insostenibilità: apparati militari e conflitti armati sono grandi consumatori di materie prime, distruttori diretti dell’ambiente naturale, e distruttori indiretti attraverso le condizioni di povertà, di emarginazione, di conflitto a cui condannano intere popolazioni.

Solo David Orr (2008, pagina non numerata) fa un riferimento esplicito – anche se generico – all’intreccio tra modello di sviluppo insostenibile e uso delle armi: per mantenere la crescita economica i potenti devono avere accesso al petrolio e alle risorse delle nazioni povere del terzo mondo, che lo vogliano o no. Il commercio globale, spesso a svantaggio delle nazioni povere, richiede l’uso di forze militari per pattugliare i mari, rafforzare le disuguaglianze, colpire con rapidità, e mantenere governi arrendevoli disponibili a saccheggiare i propri popoli e terre78.

Nella visione di una società mondiale sostenibile, basata sulla nonviolenza, Gandhi scriveva nel 1928 che l’ideale di una distribuzione equa delle opportunità di realizzare se stessi (il sarvodaya) “può essere universalmente realizzato soltanto se i mezzi di produzione delle necessità elementari del vivere rimangono nelle mani delle masse. L’accesso a queste necessità elementari dovrebbe essere aperto ugualmente a tutti, così come lo sono o lo dovrebbero essere l’aria e l’acqua; queste cose non dovrebbero essere fatte oggetto di mercato in funzione dello sfruttamento di altri…La loro monopolizzazione da parte di un paese, di una nazione o di un gruppo di persone sarebbe contraria alla giustizia (Gandhi, citato da Pontara, 1996 a, p. 33)

In un mondo sempre più sbilanciato tra una piccola minoranza di ricchi e potenti che non solo dettano le regole, ma si appropriano con la violenza di beni e servizi naturali indispensabili a tutti, e una crescente maggioranza di persone e comunità cui viene sottratto il necessario per vivere, la scienza della sostenibilità si trova di fronte al difficile compito di mettere in luce connessioni e intrecci non solo tra le scienze naturali e quelle economiche (come sta facendo), ma anche tra le scienze naturali e il diritto, l’etica, l’educazione. Come dice Wolfgang Sachs: L’alternativa che abbiamo di fronte è tra una maggiore giustizia o l’autodistruzione. In altri termini, o cerchiamo di prevenire le situazioni di scarsità che si profilano all’orizzonte e, dunque, i conflitti latenti che stanno per esplodere, indirizzando i nostri sforzi verso il disarmo ecologico e verso uno stile economico meno aggressivo, che richieda l’uso di minori risorse e che dunque possa dare spazio ad altri permettendo che anche loro possano realizzare e non solo rivendicare i propri diritti, oppure dobbiamo affidarci alla pressione militare, alla violenza, alla guerra preventiva per assicurarci i privilegi e impedire che altri ne possano godere (Sachs, 2009, p. 39).

Gandhi, un secolo fa, era lungimirante… e segnalava l’importanza di una cultura e di una pratica strettamente interconnesse e nonviolente. A noi resta poco tempo per imparare a interiorizzare i suoi pensieri e a metterli in pratica con coerenza nelle vite individuali, nelle collettività, nell’educazione, nella ricerca scientifica…

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1Scientific knowledge is not identical with the natural world. Instead, it is a human interpretation of that world, a humanly conceived way of understanding the natural world. There is an infinite number of ways of conceptualising the world or any part of it, and therefore the choice of a way to do this always reflects human interests. As a result, the effect of the interests of groups in society on scientific development also affects scientific knowledge and thereby makes this knowledge selectively useful to the various different groups both materially and ideologically.

2The main point of complimentary ideas is that one way of looking at things, be it the scientific one, be it the religious one, be it the artistic one, is not enough, and deprives you of many ways of understanding your environment; but even more, it is very dangerous because if you only have one way of approach, it is open for abuse.

3Power disempowers by splitting. It is dualism that maintains power.

4A complementary path to a resolution would lie in a revolution in consciousness, whereby affluence itself came to be seen as a disease. Would it be utopian to imagine the two wings [the Rich and the Poor] coming together? This was, after all, the vision of Gandhi, […]

5 ASSEFA: Association For Sarva Seve Farms, con sede a Chennai, Tamilnadu (India). Per saperne di più: www.assefaitalia.org

6Now that science has come out of the lab, into the worlds of people, economies and nature, its effects can no longer be contained or predicted. Hence we now live in an age of awareness of ‘unanticipated consequences’, of ‘unknown unknowns’, when we simply cannot afford to do business, or science, as usual..

7There have been many calls for a different sort of science. I have noted ‘critical science’, ‘citizens’ science’, ‘civic science’, ‘community research’, ‘action research’, ‘open science’ and ‘see-through science’, as well as ‘environmental’, ‘ecological’ and ‘sustainability’ science. Each in its own way challenges some aspect of the current dominating discourse in science. This was, after all, the aim that Silvio Funtowicz and I had when we launched ‘post-normal science’.

8‘La mente intuitiva è un dono sacro, e la mente razionale è un fedele servitore. Abbiamo creato una società in cui onoriamo il servitore e abbiamo dimenticato il dono’ (‘The intuitive mind is a sacred gift, and the rational mind is a faithful servant. We have created a society in which we honour the servant and have forgotten the gift’: Einstein, citato da Max-Neef, 2005, p. 11).

9 Ravetz (2006) usa il termine ‘creativa’ in contrapposizione a ‘distruttiva’, riferendosi a un possibile cambiamento epistemologico della moderna scienza europea.

10 Questa civiltà è tale che si deve solo pazientare fintanto che si distruggerà da sola (Gandhi, 1909)

11Sustainability science is a field defined by the problems it addresses rather than by the disciplines it employs,

12Regarding its fundamental epistemological conditions, sustainability is a fuzzy and complex concept that requires continuous scientific and societal inquiry, a process of critical thinking, observation, discourse, and analysis which involves both practical and conceptual challenges.

13Transdisciplinarity, more than a new discipline or super-discipline is, actually, a different manner of seeing the world, more systemic and more holistic.

14We have to keep in mind that the task of achieving sustainability is partly about techniques, but even more about changing consciousness. Changing the common conception of ‘science’ is an integral part of that process.

15Real problems in the real world are infinitely complex, and for any given problem, science offers only part of the picture.

16[…]The Gandhian scheme for science has to redefine the premises and objectives in order to propose its alternative reading, in the context of its outright criticism of ‘western’ ‘modern’ science. They introduced new meanings and domains of scientific knowledge, and practices closely linked to the political processes they engaged, particularly of nation-building. Three distinctive activities were undertaken in this process. First, the process redefined non-western, non-modern systems of knowledge into ‘science’, as in the case of Ayurveda and Unani systems of medicine. Posited as alternatives, they were explored, critiqued and evaluated in comparison with ‘modern’ medicine.Second, certain skills and practices such as village crafts and handloom spinning were incorporated into science. Besides the redefining of science that happened in the first activity, here, incorporation into science was also meant to legitimize this knowledge and skills as ‘scientific’ alternatives to prevailing or emerging modern options. Third, all those who practiced any of these became ‘scientists’, or the school made science a possibility for everyone

17He [Gandhi] would have met at its own level by contending that the goal of science was creativity. […] But at the same time Gandhi would have suggested that the scientific credo of idle curiosity as an abstraction would not do. The solution to the danger of idle curiosity is not abstract, ivory tower science. It is to return science to the community, when one interacts with everyday questions ranging from the mundane to the esoteric.

18Narratives are central to how we structure our understanding of how complex systems unfold over time […]. The role of narratives in human thought processes and actions, including in science and management for eco-social sustainability, has only recently been pursued by scientists, but has been discussed in many other domains of inquiry, including law, anthropology, and community development.

19It is the intuitive faculty that makes sense of diverse data and brings them into a coherent pattern of meaning and intelligibility, though of course the analytical intellect is also involved in sorting out the logic of the intuitive insight. What is not practised in science is the systematic cultivation of the intuitive faculty, the capacity to recognise the coherent wholes that emerge from related parts. However, the study of emergent properties in the science of complexity clearly requires use of the intuition in high degree. It is what is required to perceive the subtle order that characterises the holistic properties of complex systems—ecosystems, social systems, health.

20 Non-equivalent descriptive domains and non-reducibility of models

21We can, without sliding into scepticism, appreciate that any image of reality, being constructed within a particular system, simultaneously reveals, distorts and conceals.

22 Da sat = verità, e graha = attaccamento: un termine di origine sanscrita che viene tradotto come attaccamento alla verità, o fermezza nella verità.

23 Gandhi’s satyagrahic mode of engagement is central to the formulation of an alternative development model because it asserts that people are empowered when they accept responsibility for the other (including nature). Satyagraha aims to emancipate society from the circular logic of unsustainable growth by creating the space for stakeholders to reflectively reform consumption patterns and production methods.

24 […] Secondly, the framework has to reflect growing awareness/knowledge of human-nature interconnectedness. It has to be a means whereby feedback informs management actions, and lessons learned from these actions should in turn inform how the feedback is reconstituted.[…]. In short, it is an accountability framework that drives, and is in turn, driven by, increasing knowledge about eco-systems, bio-diversity, climate change, water pollution, salination etc. Thus, the framework is a vehicle to provide accounts that emphasize means over ends within a cultural context of experimenting with better ways of carrying out business activities […]. It should reduce the economic growth’s dichotomisation of means from ends.

25[…] what is proposed is not only the integration of products as generated knowledge on the object of study, but also the participation of the people and the processes involved, so that an extended peer community is conformed, and popular knowledge can intentionally make its way into the scientific domain through the participation of all actors involved.

26Transdisciplinary work involves a higher stage of interaction that entails an overarching framework that organizes people, knowledge and solutions in new ways, in new discourse, in new forms of cooperation and transformative engagement

27[the] intentional involvement of stakeholders in the definition of problems and those criteria, objectives and resources used to analyse and resolve them

28Managing for social-ecological resilience requires understanding of ecosystem dynamics, incorporating also the knowledge and wisdom of local users and interest groups.

29 Costruire una cornice vuol dire selezionare alcuni aspetti di una realtà percepita e metterli in evidenza in un testo comunicativo, in modo tale da favorire una specifica definizione del problema, un’interpretazione delle cause, una valutazione morale, ed eventualmente una raccomandazione sul problema descritto. Le ‘cornici’ sono spesso date per scontate, non soggette ad alcun tipo di domanda: perciò sono spesso invisibili nella pratica quotidiana. I “frames”, come segni del potere, sono centrali nella produzione di significati egemonici (Olausson, 2009). To frame is to select some aspects of a perceived reality and make them more salient in a communicating text, in such a way as to promote a particular problem definition, causal interpretation, moral evaluation, and/or treatment recommendation for the itemdescribed. (Entman, 1993, cited by Olausson, 2009, p. 3).

30The ideal of rigorous scientific demonstration is replaced by that of open public dialogue. Citizens become both critics and creators in the knowledge production process as part of an extended peer community. Their contribution is not to be patronised by such labels as “local”, “practical”, “ethical” or “spiritual” knowledge. A plurality of co-ordinated legitimate perspectives (with their own value commitments and framings) is accepted.

31Popularisation of science, Gandhi suggested was not a linear transfer of knowledge from the expert to the lay person but had to be a collaborative effort. It was only thus that science too could benefit from the process

32a form of enquiry, a scientific adventure, an unplanned yet vigorous communal science constantly tested and revised against the harsh reality of life.

33 expert craftsmen and scientific researchers

34 The lokavidya perpective recognizes that ordinary life is a center of knowledge production and not merely an ‘ìimplement’ of knowledge generated elsewhere.

35[…]traditional world views often also have a spiritual component, which may be interpreted as a way to deal with uncertainty. […]Cultural values such as respect (for humans as well as for nature), sharing, reciprocity, and humility characterize a diversity of systems of traditional knowledge and practice.

36Rather than claiming the rarely attainable high ground of truth, scientific advice should own up to uncertainty and ignorance, exercise ethical as well as epistemic judgment, and ensure as far as possible that society’s needs drive advances in knowledge instead of science presuming to lead society.

37A science to be science must afford the fullest scope for satisfying the hunger of body, mind and soul.

38[…]He also sought to reconstitute the relations between fact and value, science and religion in his method. By insisting that scientists are to provide meaning to what they do, he made clear that he was not interested in mere technical solutions to a problem. The role of the scientist lay not in the realm of fact alone but in creating meaning (value). To him they were not to be separated.

39In principle, therefore, there is an inherent unknowability, as well as unpredictability, concerning ecosystems and the societies with which they are linked.

40The issue is not whether ecosystems will survive, but whether they can continue to provide levels of service for humanity to comfortably survive. Disrupting global ecosystems is unlikely compatible with this goal. Our hubris makes it difficult to accept that we may not know the throughput levels at which this could happen.

41«Al fine di proteggere l’ambiente, un approccio cautelativo dovrebbe essere ampiamente utilizzato dagli Stati in funzione delle proprie capacità. In caso di rischio di danno grave o irreversibile, l’assenza di una piena certezza scientifica non deve costituire un motivo per differire l’adozione di misure adeguate ed effettive, anche in rapporto ai costi, dirette a prevenire il degrado ambientale» Conferenza sull’Ambiente e lo Sviluppo delle Nazioni Unite, Rio de Janeiro, giugno 1992.

42[…]In the present period, Gandhi’s message has (so far) been less diluted than some of the others. Let us make a list of the attributes of a science based on satyagraha, focused on ourselves. These include awareness: of one’s own ignorance and propensity to error; of the readiness to learn from anyone, be they a student or a citizen; of responsibility for the unanticipated consequences of one’s discovery or invention; of the possibility of doing evil in the name of good; and of the contradictions that afflict anyone who faces the corrupting pressures of power or responsibility.

43 The transformative idea of non-violence can no longer be dismissed as an Eastern oddity, an historical aberration, or the height of naiveté. At the end of our tether it is rather the core of a more realistic and practical global realism. There is no decent future for humankind without transformation of both our manner of relations and our collective relationship with the Earth.

44 The beginning of a more realistic realism is in the recognition that violence of any sort is a sure path to ruin on all levels and that the practice of non-violence is a viable alternative—indeed our only alternative to collective suicide.

45You should understand . . . that I never reject a scientific truth that has been established. But you should also note that in (the realm of ) science what has come to be accepted as truth today is not unlikely to be proved as untruth tomorrow. Sciences founded on deduction are always bound to suffer this basic imperfection. We cannot therefore regard it as an absolute truth

46 Secondo Ashis Nandy (1988), è solo operando una distinzione tra scienza e tecnologia che tutta la critica sociale alla scienza può continuare ad essere allontanata dalla scienza, e prendere a bersaglio la tecnologia (it is only by distinguishing between science and technology that all social criticism of science can continue to be deflected away from science towards technology).

47While theory and practice might be conceptualised as separate bodies of knowledge which the researcher ‘visits’ iteratively, the aim of TD praxis would be for the bodies of theoretical and practical knowledge that the researcher engages with to inform each other.

48From an environmental perspective, the need for sustainability is underpinning a growing demand for research that takes account of complex contexts and interactions between natural and social systems. In the social context, calls for interaction with an increasingly engaged populace are driving research in more participatory, consultative and deliberate directions. Taken together, these drivers indicate a changing research landscape promoting knowledge production that attempts to solve real world problems through a ‘‘context specific negotiation of knowledge’’

49Isn’t it interesting that many of his thoughts are repeated today by a new generation that is opposed to the dehumanising effects of rampant globalisation and destruction of the earth as a place to live in?

50Although emissions and consumption patterns are not uniform within each income group, our analysis highlights the ecological harm poor countries bear to indirectly enable the living standards of wealthier nations

51 […] economics should not be separated from the deep spiritual foundations of life. This can be best achieved, according to Gandhi, when every individual is an integral part of the community; when the production of goods is on a small scale; when the economy is local; and when homemade handicrafts are given preference.

52In other words, it is a question of rebuilding/rediscovering new cultures. If a name must absolutely be given to it, this objective can be called the umran (flowering) as by Ibn Kaldûn; swadeshi-sarvodaya (improving the social conditions of all), as by Gandhi; bamtaare (to be well together) as by Toucouleurs; or Fidnaa/Gabbina (“The radiance of a well-fed and carefree person”) as with the Borana of Ethiopia

53 Who has power to determine which is the bottom-line in an environmental discussion?

54 It is no longer possible to shift the contradictions of domestic poverty out onto the ecosphere and the world’s poor. The limits of safe expropriation of the ecosphere have been breached

55We notice that the mind is a restless bird; the more it gets the more it wants, and still remains unsatisfied. The more we indulge our passions the more unbridled they become. Our ancestors, therefore, set a limit to our indulgences. They saw that happiness was largely a mental condition.

56 “[…] moral values are always attached to every article exposed to sale in the market. We cannot ignore such values and say ‘businness is businnes’. Goods produced under conditions of slavery or exploited labour, are stained with the guilt of oppression.

57 What does one know about where the article comes from? Who makes the article? From what material? Under what conditions do the workers live and work? What proportion of the final price do they get as wages? How is the rest of the money distributed?

58[…]In economics, large scale industry is the antithesis of democracy in politics. It is not by chance that the western nations have come by their economic organization. It is a result of their way of thinking in terms of autocracy. They find themselves with dictatorships in political organization, and centralized industries in the economic field. These two go together and we cannot have the one without the other

59 […] se fino ad oggi potevamo dire che l’uomo rischiava di trasformare in modo irreversibile la Biosfera, oggi possiamo affermare che la nuova meta della biologia sintetica è la trasformazione della Genosfera, del patrimonio genetico universale che si è formato nel corso di miliardi di anni di co-evoluzione biologica (Baracca & Bugio, 2010).

60[…] is being replaced by wider constructs of identity and self-interest-by what you might call the ecological self or the eco-self, co-extensive with other beings and the life of our planet. It is what I will call “the greening of the self”.

61 Ecological identity refers to all the different ways people construe themselves in relationship to the earth as manifested in personality, values, actions, and sense of self. […] The interpretation of life experience transcends social and cultural interactions. It also includes a person’s connection to the earth, perception of the ecosystem, and direct experience of nature.

62 […] it is apparent that the issue of sustainability as a frame of mind is not simply the issue of our attitude towards the environment, but represents a perspective on that set of the most fundamental ethical, epistemological and metaphysical considerations which describe human being. […]Thus alienation from nature and from self are highly interrelated and key to our ability to knowingly despoil the environment. If we love (value) ourselves, we will love (value) that which we believe supports us.This view suggests that part of education for sustainability as a frame of mind will be to reconnect people with their origins and what sustains them and to develop their love of themselves.

63For Gandhi the body was a microcosm of the universe and he sought a harmony of two kinds: the harmony of the body and its constituents parts and of the body and its environment, particularly earth, water, light and air.

64 [it is] an arrogant assumption to say that human beings are lords and masters of the lower creatures. On the contrary, being endowed with greater things in life, they are the trustees of the lower animal kingdom.

65 While studying the human institutions, we should never lose sight of that great teacher, mother nature. Anything that we may devise if it is contrary to her ways, she will ruthlessly annihilate it sooner or later. Everything in nature seems to follow a cyclic movement. Water from the sea rises as vapour and falls on land in refreshing showers and returns back to the sea again . . . A nation that forgets or ignores this fundamental process in forming its institutions will disintegrate.

66 Unwillingness to recognize indigenous knowledge as “science” skews the historical record; undermines objectivity in Aboriginal, multicultural, and mainstream education; and seriously restricts approaches to some of our most vexatious and debilitating environmental, science-technology, and socio-economic problems.

67[…] the conventional scientific solution has been to quantify a few of the variables, whereas the solution in indigenous knowledge has been to find ways of perceiving that continuum of nature and working with it.

68 Complex systems phenomena, such as climate change, occur at multiple levels, and there is no one correct level of analysis. The system must be analyzed simultaneously across geographic scale, from the global to the local. But the relative emphasis of science has been at the global level. The fact that indigenous knowledge provides local-level understanding is particularly important because it complements science precisely at the level where information is poor.

69the process of integrating non-academic actors in knowledge production for attaining social goals is central […] … reflexivity and social accountability refer to both researchers and involved stakeholders, and to the interactions between them. This type of reciprocal and critical reflexivity can only occur through mutual learning.

70Thus, a basic characteristic of the twenty-first century ecology is the pluralism of theoretical and methodological approaches that should characterize any scientific perspective according to the current philosophy of science. […] Environmental education seeks to develop critical skills needed for informed, well reasoned personal decisions and to empower people to take action on environmental issues.

71 All parts of the university system are critical to achieving a transformative change that can only occur by connecting head, heart, and hand

72[…] the university concept will have to be radically rethought in terms of an education process that provides people with the practical skills needed to support their local community as well as an understanding of the cultural history that has brought us to the present moment of transition.

[…] there will be a diversity of learning possibilities within this system, appropriate to different individual interests, but they will all be grounded in a common understanding of ecological and cultural principles as expressions of a creative process in which everything is engaged, human and non-human, animate and inanimate

[…] Learning will be based on the acquisition of practical skills through experiential engagement with craft and place, combined with research and scholarship that guide the processes of innovation and social transformation. The acquisition of skills will have a significant cooperative dimension, with an emphasis on developing practices relevant to the community while encouraging individual creativity and appropriate innovation

73 in parte accessibile sul sito web: http://www.swif.uniba.it/lei/personali/manara/home.htm.

74It is clear that in Gandhi’s Nai Talim, science education was not to proceed by pursuing islands of excellence in a sea of mediocrity. Work was to be done on the base of education so that no hierarchies of knowledge were created between the scientists as experts and the people. He wanted a proliferation of scientists and engineers in the villages, an increase in India’s scientific manpower that would not be measured by the number of university degrees in science, but in creating scientists who would be true servants of the nation.

75expert craftsmen and scientific researchers

76 As long as academic science remains a priority in school science it will extinguish the achievement of a productive and educationally sound science experience for most students

77 Wisdom-in-action represents a fundamental human goal: to become wiser in living properly in the world.

78 To maintain economic growth the powerful must have access to the oil and resources of poor third world nations whether they like it or not. Global trade, often to the disadvantage of poor nations, requires the use of military forces to patrol the seas, enforce inequities, strike quickly, and maintain pliant governments willing to plunder their own people and lands.

La prospettiva gandhiana come contesto unificante per la ‘sustainability science’ e l’educazione alla sostenibilità - Centro Studi Sereno Regis (2024)
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Author: Rubie Ullrich

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